mercoledì 31 agosto 2011

Il mondo visto dall'alto è senz'altro più bello

Gli astronauti dalla loro capsula vedono uno straordinario pianeta azzurro e non s’accorgono dei conflitti che l’insanguinano. Anch’io, nel mio piccolo e molto più modestamente dal mio balcone del terzo piano, godo d’uno spettacolo che ha pochi uguali: un mare striato dal blu intenso all’azzurro chiaro, un romantico golfetto da cartolina illustrata, al cui centro s’eleva la foresta d’alberi dei panfili degli evasori fiscali che dondolano mollemente nel porto turistico.

Tutto ciò alla destra del balcone, perché a sinistra, fino a qualche anno fa lo spettacolo era ancora più bello e con la vista spaziavi per chilometri fin oltre il Circeo. Poi arrivarono bulldozer e idrovore che scavando sul bagnasciuga vi piazzarono un edificio residenziale di 5 piani fuori terra, privandomi dei fantasiosi miraggi con i quali la Maga Circe allietava le mie brevi vacanze estive.
Mia madre, riposi in pace, cui quello scempio è stato risparmiato, era innamorata di tanto dono divino: passava ore ed ore a quel balcone respirando a piani polmoni l’aria salmastra e fantasticando chissacché con lo sguardo perso oltre l’orizzonte lontano. Lei non scendeva mai in spiaggia.

Io, invece, ci vado perché - benché non sia un fanatico dell’abbronzatura - confesso che mi piace prendere un colore che appaia un po’ più sano di quel pallido nordico che fa tanto malaticcio. Ma la spiaggia comporta inevitabilmente quell’eterogenea promiscuità imposta dagli ombrelloni attaccati l’uno all’altro.
Può capitarti, così, d’imbatterti in un’umanità composita che non sempre capisci, tanto è lontana dal tuo standard di vita e dalle cose che in sessant’anni hai imparato ad amare. E, benché tu ti senta aperto al nuovo, hai radicate in te le tue esperienze, la tua visione del mondo, nonché i canoni della tua educazione che, inevitabilmente, condizioneranno questa tua disponibilità.

Sicché, quest’anno, la spiaggia non mi piace: non mi piace quello che vedo e quello che sento.
A parte una coppia di amici per i quali ho brigato onde averli vicini d’ombrellone, e se escludo una dolcissima nonna che ho conosciuto in acqua con i suoi nipotini, mi sembra d’essere circondato da un mondo livoroso, asociale e sostanzialmente ostile ed aggressivo.
Girando lo sguardo vedi solo gente arrabbiata: padri che picchiano i bambini e senti madri che urlano ai figli piccoli: che cxxxx vuoi?
C’è, una per tutte, una bella signora sui trent’anni, abbronzata da fare invidia ad una nera congolese e dal fisico statuario che non parla: ruggisce e digrigna i denti. Il suo sguardo torvo spazia da un ombrellone all’altro con aria di sfida resa ancora più esplicita dalle lunghe unghia finte che esibisce come armi letali.
La più parte dei giovani sembra non aver alcuno dei freni inibitori fra quanti imposti dalla buona creanza: s’impossessano del tuo lettino momentaneamente vuoto, meglio se su quello c’è il tuo asciugamano e, se invece ci sei, magari sdraiato, ti si seggono con noncuranza a lato. Il loro linguaggio farebbe impallidire d’invidia un lenone alle prese con una prostituta riottosa ed i modi strafottenti ed aggressivi preludono a litigi che puntualmente scoppiano ed ai quali s’uniscono in un battibaleno genitori e nonni in difesa dei cresciuti rampolli.
Tutti insieme m’appaiono come un branco minaccioso il cui ambizioso disegno sia quello di infastidire, disturbare, sopraffare..., sicché la spiaggia è diventata un luogo di disagio e la sua pericolosità è assimilabile a quella d’uno stadio nel quale si svolga un derby stracittadino.

Sul far della sera torni a casa e ti riaffacci da quel balcone: la vista ti restituisce l’immagine degli ordinati ombrelloni, dell’azzurro d’un mare calmo ed invitante, d’un cielo che si tinge di rosa agli ultimi raggi del sole che tramonta.
E mormori a te stesso: come tutto è più bello visto da quassù... .

Noi e l'evasione fiscale

In questi giorni di ferie avvelenate il Governo ci parla di sacrifici lacrime e sangue, di tredicesime in discussione, di nuove tasse, nonché del cuore sanguinante del Presidente del Consiglio del quale non può fregarci di meno. Tutto ciò è divenuto nuovo argomento di accesa discussione dei miei vicini di ombrellone…, e la conclusione invariabilmente è una sola: Governo ladro, governo bastardo… .

Sono pronto ad unirmi al coro, laddove mi appare evidente che a pagare siano sempre i soliti, cioè quei pochi che effettivamente già pagano le tasse in Italia poiché – sono certo – che di tutto questo putiferio nulla interesserà ai proprietari delle barche che dondolano alla fonda un paio di chilometri più in là.
Tuttavia mi chiedo quanto questo governo, ma – a mia memoria - gli altri non hanno mai dato prova migliore, sia effettivamente il solo colpevole… , si perché anche noi, i tartassati, abbiamo le nostre belle colpe.

Mi spiego meglio. Mi trovo nell’amena località di mare dove ormai torno da 30 anni, grazie ai sacrifici di mia madre, riposi in pace, che ebbe l’idea di comprare qui 37 metri quadrati.
Qui è normale che pochi negozi espongano i prezzi al dettaglio, mentre è categorico che nessun negoziante o supermercato metta la tara sulla bilancia il che, mi fa dubitare anche della loro precisione. Non c’è bar che ti dia con regolarità lo scontrino per il caffè ed il cornetto, né la ricevuta che stringo in mano per ombrellone e lettini potrà mai essere esibita con valore legale.
Ma nessuno protesta! O, meglio, nessuno degli altri protesta, poiché sono 30 anni che, come il Don Chisciotte tanto caro ad Aldo, insieme con mia moglie e mia figlia, combatto contro i mulini a vento reclamando dagli esercenti tara e scontrino.
Sono arrivato, perfino, a rivolgermi a due vigili della Polizia Urbana, fra i cui compiti rientra quello di vigilare sull’annona, ma sono stato letteralmente deriso: “…deve annà in comune, noi dovemo fa ‘e murte a le machine…”. Certo, meglio estorcere 60 euro al poveraccio che la domenica arriva con la famiglia al mare che litigare con un negoziante, magari suo parente.
Ieri pomeriggio mia moglie ha seminato il panico in un supermercato per aver contestato alla commessa dei salumi che è reato penale non inserire la tara… . Oggi l’ho accompagnata in macelleria per tema che la picchiassero per strada, non si sa mai, e così ho potuto verificare, ancora una volta, che in quel negozio non c’erano prezzi esposti, né tara sulla bilancia e lo scontrino che ci hanno dato, sono marito e moglie, a casa è risultato non essere fiscale.

Gli Italiani, e non solo in meridione, si sa, sono sempre stati complici tra di loro contro tutto ciò che rappresenti lo Stato, basti vedere quante macchine ti “fanno i fari” quando c’è un controllo di polizia, ma che arrivino ad essere così idioti da farsi complici anche degli evasori fiscali questo mi sconvolge.
La maggior parte dei commercianti al dettaglio, secondo le tabelle del Ministero delle Finanze, non denuncia in media più di 17.000 euro lordi l’anno, quasi quanto i gioiellieri, peraltro. Cioè questa gente – secondo i tabulati - è povera! Salvo poi possedere ville ed appartamenti e far viaggiare i figli in Ferrari.
Possibile che non ci rendiamo conto che ogni volta che non reclamiamo tara e scontrino, ci accolliamo l’evasione fiscale di tali esercenti, e con essa quella dei liberi professionisti e degli artigiani dai quali non pretendiamo mai la fattura?
Un governo, qualunque esso sia, quando ha bisogno di soldi li prende dove li trova e, soprattutto, dove è più facile scovarli, cioè dal reddito fisso, ovverossia dai salariati, dagli stipendiati e dai pensionati… .
E finché un governo serio non porrà in essere una vera riforma fiscale, capace - cioè - di creare un conflitto d’interesse tra fornitore di prestazione e utente finale, inducendo quest’ultimo ad esigere la fatturazione, a noi - eterni tartassati - non resta che chiedere tara e scontrino per far emergere quell’evasione della quale ci rendiamo quotidianamente complici - e spalmare così su una base più ampia quei sacrifici ai quali siamo sistematicamente chiamati.

I Governi saranno pure bastardi, ma noi cosa siamo? Io non lo scrivo perché, di norma, non dico parolacce.

Amicizie Virtuali

Via internet si fanno gli incontri più strani, ma – spesso, molto spesso – trovi delle persone straordinarie e, perfino, nascono delle belle amicizie.

A me è capitato un po’ di tutto: sono stato bersagliato su Skype, ad esempio, da una incredibile quantità di ragazze slave in cerca di …amicizia.
La prima volta che è successo, sono già passati almeno tre anni, ci pensò mia moglie a schiarirmi le idee in proposito, dopo che la fanciulla – chattando in mia assenza, era passata in poche battute dal “lei ad “amore mio”. Al computer era la mia dolce metà e dubito abbia usato un linguaggio edificante, per quanto non mi ricordi mai d’averle sentito una parola fuori posto… .
Ma, in fondo, la colpa non era neppure delle belle signore in cerca di fortuna; le probabilità che potessi essere un pollo da spennare, infatti, erano obiettivamente notevoli data la foto ammiccante del grigio signore che confessava, con Plutarco: “…è dolce invecchiare con l’animo onesto, come in compagnia d’un amico dabbene”. E’ possibile che nei Balcani e nelle sconfinate steppe russe nessuno mai abbia sentito nominare il signor Plutarco.

Su facebook sono stato ancora più… sfortunato: fra i tanti onesti e le numerose signore che mi hanno onorato della loro virtuale amicizia, ho avuto anche il mio bel momento di richieste da parte di esuberanti giovanotti che offrono i loro servigi a vecchi bavosi in cerca di… emozioni. Tale assalto, che peraltro adesso sembra essersi sedato, m’aveva sorpreso poiché – a parte l’età - niente nel mio profilo denunciava tendenze… devianti.
L’attuale mia posizione mi ha portato a non adottare un preventivo filtro sulle richieste di amicizia che mi pervengono; la più parte di queste, infatti, giungono da Cavalieri o simpatizzanti dell’Istituzione che presiedo. Ciò mi induce a pensare che, nel particolare periodo di cui ho fatto cenno, possa aver dato l’ok a qualche personaggio sbagliato, dando così la stura alle offerte di sconce frequentazioni.
Niente di male: il bello di facebook è che gli amici si possono, oltre che rifiutare, perfino, cancellare. Potenza dei tempi moderni.

E’ nel giusto, pertanto, chi seleziona ed è nel giustissimo chi – potendo – applichi severe regole di prevenzione. Eppure ammetto che un po’ male ci rimani quando vieni rifiutato: tu sai chi sei, sai cosa vali, quanto hai da dare e quanto sei disposto a ricevere, per cui il tuo io – volenti o nolenti – ne rimane un po’ mortificato. Un po’ come quando coopti qualcuno in un Blog e questi ti fa “cadere dall’alto” la sua viva contrarietà.

Nel novero dei miei “amici” virtuali, però, c’è lo zoccolo duro di coloro che frequento con più assiduità e che ho imparato a stimare: ci sono gli amici amici; quelli conosciuti su AlBlog e quelli del Blog di Laura; qualcuno mi cerca perché amo la musica classica, altri si intrattengono con me perché condividono il mio modo di pensare o hanno motivo di ritenere che io sia una persona che valga la pena di frequentare, sia pure solo virtualmente.
Con Stefano siamo passati dalla tastiera all’amicizia vera ed alla frequentazione personale, così come spero un giorno possa accadere con Aldo, Luciana, Kathy, Marialuisa… e tanti altri ed altre ancora che mi gratificano della loro affettuosa stima.

Facebook, così come Skype e gli altri mezzi similari, o come tutte le cose in fondo, di per sé non sono né buoni né cattivi: è l’uso che ne fai che li fanno qualificare in modo o nell’altro.
C’è poi la tua educazione ed il tuo modo di relazionarti con il prossimo che è determinante, tanto nella rete che nella vita. Ricordo ancora con vivo disappunto una mia piccola disavventura: all’indomani del mio pensionamento sono al supermercato per un panetto di burro. Mi perdo tra mozzarelle, formaggi ed affini dei quali faccio la conoscenza per la prima volta ed il malandrino s’è defilato così bene che non riesco a scovarlo. Una giovane signora, districandosi con disinvoltura nel labirinto dei chilometrici scaffali, mi passa accanto: “signora, può indicarmi dove trovo il burro?” Questa, nonostante il mio aspetto di persona dabbene, mi posa addosso uno sguardo schifato e si allontana in fretta, neppure l’avessi insultata.

La rete, pertanto, potrà celare il tuo aspetto, la tua età, la tua condizione sociale perfino, ma non nasconderà mai ciò che veramente coltivi nel tuo cuore… .

Il Marocchino

Sbrigativamente li chiamiamo tutti “marocchini”. Siano essi indiani, filippini, magrebini o senegalesi, quelli che vendono la loro povera merce macinando chilometri sulla sabbia assolata, sono “marocchini”. Ce ne sono di tutti i tipi: allegri e sorridenti, seriosi e …professionali, tristi dallo sguardo vuoto che sembrano non vederti, tu che te ne stai abbandonato sul lettino e telo di spugna stinto che un altro marocchino ti ha venduto l’anno prima.

Qui, su questa spiaggia, pare che la specializzazione sia per razza e paese di provenienza: i Magrebini spingono su ruote da bicicletta bancarelle straripanti, più che l’arca di Noè, di costumi da bagno femminili; i Senegalesi girano con immensi sacchi zeppi di finte “louis vitton & affini”; gli Indiani sono i gioiellieri della battigia con le loro vetrinette tappezzate di anelli d’argentone, collane di vetro corallino, braccialetti d’osso spacciato per “vero avorio”; gli asciugamani, che forse per la crisi non sono neppure più di spugna, sono passati a malgasci ed altri isolani provenienti da quell’immenso oceano che di pacifico ha solo il nome.
Poi ci sono i più disgraziati fra i disgraziati, ma che fatalmente marocchini sono loro pure: uno di questi, di razza indefinibile, lo vedo sempre con un secchione di plastica verde pieno fino all’orlo di bianco cocco a pezzi. Passa tra un ombrellone e l’altro biascicando una flebile nenia della quale non ho mai afferrato le parole, ma forse vuol dire “coccobello”, come diceva sulla stessa spiaggia, con voce più stentorea già trent’anni fa, quel ragazzino dal capello di paglia che oggi - uomo fatto - ha una bancarella di noccioline all’ingresso del porto gremito di lussuose barche per evasori fiscali; solo il suo cappello è sempre lo stesso, forse pensa che gli porti fortuna.

Io scendo in spiaggia con l’asciugamano di spugna, quello del marocchino dell’anno prima, ed un libro sotto braccio. Non ho mai soldi con me. Fino a qualche tempo fa mi portavo un euro dietro: serviva per il caffè che sorbivo al baretto dello stabilimento finché la giovane e bella barista di prima (che sapeva fare un buon espresso) non ha fatto carriera passando alla cassa. E’ stata sostituita con una ragazzina della stessa età, apparecchio ai denti e trenta chili di troppo, che pare abbia un fatto personale con la Gaggia alle sue spalle, per cui non le riesce di trarne fuori niente di più d’una ciofeca.

Scendo senza soldi perché non compro bichini, anelli in argentone ed ho rinunciato perfino a quell’unico caffè che, ahimé, caffè non è più. Mi immergo nella lettura, rigorosamente all’ombra e mi lascio distrarre raramente dal chiacchiericcio dei vicini, dal vociare dei bambini che si rincorrono, dalle discussioni accese dei miei vicini (uomini) che commentano l’ultimo acquisto della squadra del cuore: qui son tutti romanisti e laziali, cosa vuoi che me ne freghi a me che tifo per il grande Milan.
Proprio all’ombrellone avanti al mio, c’è anche una sedicenne con un fisico da modella e piercing all’ombelico, ma finché non avrà frequentato una buona scuola svizzera non potrà rientrare fra i miei canoni estetici e, poi, … non vorrei essere accusato di pedofilia.

Ieri me ne stavo lì, tranquillo, immerso nelle mie pagine da intelligentone, quando avverto una presenza: alzo gli occhi e vedo un mazzetto di calzini bianchi da ginnastica stretti in una mano nera: Voi?
Io ancora preso dal filo della lettura: no, grazie. Ma i calzini non spariscono, sono lì immobili: voi? Prego!
Alzo la testa e subito ne inquadro la categoria: è un disgraziato fra i disgraziati ed anche un po’ avanti negli anni; lui non ha anelli, né “due pezzi” da sei euro da offrire; tende umilmente quei calzini da un tanto al chilo a me, ozioso e ben pasciuto signore.
Lo guardo con un sorriso amichevole: no, grazie.
Lui mi valuta, mi soppesa e, poiché - forse - gli ho appena sorriso: tu dai per mangiare?
Mi sento arrossire: non ho un centesimo con me, come faccio a spiegarglielo?
Lui sente il mio imbarazzo e certo arrossisce anche lui, ammesso che sotto la pelle nera si possa arrossire per la vergogna d’aver elemosinato.
Si allontana senza una parola.

L'età dell'oro

La rettitudine - così come tutte le altre virtù umane - rimane più forse un'aspirazione, un'utopia onirica della parte migliore dell'uomo che aspira all'immortalità ed alla perfezione. Non per niente, in tutti i tempi, egli ha favoleggiato sull'età dell'oro in cui tutti gli esseri erano buoni ed il leone s'abbeverava con l'antilope ed il lupo con l'agnello.

Un sogno che non teneva conto di Caino.
Lo sforzo che facciamo è quello di voler credere che tale età sia esistita e quando nel quotidiano ci ingegniamo a praticare taluna delle virtù, nell'inconscio ci figuriamo che l'età dell'oro possa comunque tornare, almeno nell'infinito piccolo del nostro mondo.

Lettera ad un politico che non sapeva pronunciare la parola "patria"

Purtroppo nei tempi imposti negli incontri “ufficiali” non si ha mai agio di portare a termine discorsi compiuti con reciproca soddisfazione. Ed in effetti abbiamo lasciato malamente in tronco quello, che avevo iniziato io, circa l’incapacità degli Italiani di pronunciare la parola “patria”.
Spero, pertanto, voglia prestare la Sua cortese attenzione alla presente con la quale mi propongo di esaurire l’argomento iniziato, poiché dispero d’avere mai un’occasione adeguata per farlo altrimenti.
Circa il termine “patria”, La pregherei di leggere i versi giovanili, che una mattina m’uscirono di getto dopo la cerimonia dell’alzabandiera con la quale, quotidianamente, iniziavano le nostre giornate di cittadini in armi al reggimento.

Patria ( Alzabandiera - 1994)
Nel chiaro mattino d’un cielo sgombro di nubi,
solenne sale il Tricolore sullo snello pennone.
L’orgoglio monta dal vigore dei giovani cuori
che Lui mirando, irrigiditi sul saluto,
offrono ad Esso il quotidiano dovere
nell’inconscia promessa di ben altro sacrificio,
... se pur necessario.

Lo squillo della tromba e l’ordine secco
strappa il cavalleggero dal suo raccoglimento
e subitanei tornano a lui
l’immagine amata della desiderata fanciulla,
la mai sopita voce che consolava antichi vagiti,
il tocco fermo della paterna mano.
Rivede insieme banchi di scuola e gioiose risate,
bricconate ardite e sfide mai portate ...

... ed un attimo prima che si ricominci,
finalmente scopre che tutto questo è Patria!

Noterà che i contenuti che a "Patria" attribuiva il giovane ufficiale di tanti anni fà, erano ben diversi da quelli retoricamente retrivi di cui si ha pudore, anzi poneva quasi come un’improvvisa scoperta che Patria fosse la tua casa, la tua famiglia, la tua donna, le tue esperienze, in una parola: la tua identità.
Per quello che sei e per la libertà di esserlo, sei disposto - più o meno consapevolmente - al sacrificio della tua stessa esistenza, perché senza la tua identità sei solo uno schiavo senza radici.

Ecco, quindi, che allorché ci si riunisce per onorare quanti sono morti per la nostra libertà d’essere Italiani, i sinonimi - nei quali ci hanno cresciuto - diventano assolutamente inadeguati a riconoscere la portata di quel sacrificio poiché, mentre si può parlare delle industrie del Paese o della siccità che ha colpito il Paese, dire che quanti hanno perduto la vita sui campi di battaglia per consentirci di essere quello che siamo o che vorremmo essere, siano caduti per il Paese, suona d’ingratitudine e, insieme, mortifica coloro che si sono riuniti nel loro ricordo.

Oggi abbiamo perso l’abitudine ad identificare le cose col proprio nome; non più carceri, bensì “case circondariali”, come - ipocritamente - s’è sostituito con “collaboratrici domestiche” ed “operatori ecologici” le parole cameriere e spazzini, quasi che queste nuove terminologie riuscissero ad attribuire più decoro alle cose ed alle persone che così si vogliono identificare.
Per il termine “patria” s’è verificato il processo inverso sicché, ad Essa, abbiamo tolto dignità e decoro, come se “terra dei padri” stesse ad identificare qualcosa di cui vergognarci.
Quanta invidia provo per quelle bandiere che garriscono quotidianamente ed in ogni angolo di Parigi o di Londra, e quanto orgoglio riconosco in quei popoli che, memori delle loro tradizioni, guardano al futuro.
Quanta pena sento, di contro, per la mia Patria negletta che, nelle rare ricorrenze, esibisce drappi sgualciti e stinti al sole, quasi che Augusto, Dante, Michelangelo, Leonardo, e via via a scendere..., Leopardi, Garibaldi, Verdi, Marconi, Fermi, non siano degni d’altrettanto orgoglio.
E termino questa mia considerazione: c’è voluto un Presidente quale Ciampi per ridare dignità alle cose della Patria, altrimenti circoscritte agli stadi dei grandi avvenimenti sportivi, e capisco come cinquant’anni di disfattismo ideologico e di rigetto per un certo tipo di retorica, siano difficili da restaurare nelle coscienze. Tuttavia auspicherei che, nella continuità di quanto iniziato da citato benemerito Presidente, si facesse uno sforzo intellettuale per restituire ai nostri giovani memoria e orgoglio d’essere Italiani.