giovedì 6 febbraio 2014

Totò il pescatore (da Collegio, ricordi di un orfano di Dario Temperino)



Di pescatori veri durante il giorno non ce n’era nemmeno l’ombra nei pressi dei ruderi dell’approdo, perché - come quasi tutti sanno - i pescatori escono in mare al calar del sole, quando il cielo si tinge di rosso porpora e le barche, prendendo lentamente il largo si stagliano nel suo disco come tante macchioline che l’astro, alla fine, inghiotte nel suo tuffo serale. Questi uomini, ormai immersi nell’oscurità, stanno fuori tutta la notte a trafficare con reti, palamiti, nasse, lampare e fiocine, facendo rientro solo alle prime luci dell’alba, con il sole che s’alza quasi  a restituirli sani e salvi alla madre terra.

     L’unica barca che di giorno arrivava fin lì era quella di Totò, un ragazzone di media statura che si reggeva su due gambe forti e possenti come colonne, scuro di carnagione per l’abbronzatura sulla quale spiccavano due grandi occhi azzurri ed uno straordinario ed accattivante sorriso che - a prima vista - lo rendeva simpatico a tutti. Pescatore anche lui, da militare era stato anche marinaio scelto, ma la sua non era una barca qualsiasi, una barca a remi come le tante che vedevi dondolarsi nel povero porticciolo di Mondello: no, la sua era una magnifica grande barca a vela, bianca ed azzurra, che – col favore del vento - solcava il mare con un movimento continuo, sicuro e che quando virava si piegava su un fianco mentre la vela emetteva un rumore secco, quasi di uno schiaffo, che ogni volta ti sorprendeva.
     Totò, dopo una virata spettacolare che faceva compiere alla barca solo per attirare l’attenzione, “per fare pumata” come dicevamo noi, accostava con prudente abilità fino ai ruderi del porticciolo e, quasi fosse lì per caso e volesse riposarsi un po’ dalla fatica della navigazione, si metteva a parlare con noi che lo subissavamo di domande:
- Ma che bella ‘sta barca, a quanto va?
Più pratiche, invece, le domande delle ragazze grandi, frutto certo di una maturità diversa:
- ‘sta notte piscasti assai? T’abbuscasti u  pani?
     C’era quasi un’inquieta apprensione in questa ultima domanda: “hai fatto buona pesca stanotte, sufficiente a guadagnarti il pane?”, come se loro si preoccupassero che il giovane avesse abbastanza da mangiare..., e dire che nulla lasciava pensare che patisse la fame o versasse in precarie condizioni d’indigenza, ma in realtà quelle loro domande nascondevano interessi ben più profondi che, a noi bambini, sfuggivano.

     Angela, quando la barca cominciava ad accostare, mollava tutto e, come per caso s’avvicinava nel posto dove ormai sapevamo che sarebbe andata ad attraccare, raccomandando:
- Bambini fate attenzione, qui l’acqua è più alta e non dovete sporgervi.
     Angela parlava quasi sempre in italiano. Lei era la più vecchia delle ragazze che con le suore ci accompagnavano in quelle giornate di mare, si diceva che avesse quasi diciotto anni, un’enormità per essere ancora in collegio e dieci più della media di noi maschietti. Ma era anche la più benvoluta. Dolcissima, con un visetto da Madonna incorniciato da capelli ondulati biondi e due buoni occhi neri che luccicavano fra le ciglia lunghe che li inquadravano. Era agile, flessuosa, e sembrava quasi non toccare gli scogli con i suoi piedi nudi quando saltava da uno all’altro. Le sue compagne, all’arrivo della barca, intonavano una strana canzone, un qualcosa  che sapeva di madrigale d’amore, ed al tempo di canzonatura, che faceva arrossire Angela, ma che a noi piccoli non faceva né caldo né freddo, perché Totò era simpatico ed a lui Angela gliel’avremmo data volentieri:
- Arrivò u zitu, cu’ l’occhi chini d’ammuri e ad Angela si vulia vasari... . Ma idda, mischinedda, s’ù putia sulu taliari... .
Le suore erano venete e non sempre capivano i nostri giochi di parole, ma la signora Filippa lei si che capiva ed anche bene: “è arrivato il fidanzato con gli occhi pieni d’amore e desideroso di baciare Angela. Ma lei, poverina, può solo guardarlo...”, ma non appariva contrariata né preoccupata, forse coltivava i nostri stessi affettuosi pensieri nei confronti di quei ragazzi che sembravano due angeli casualmente caduti in terra.
     
Un giorno di quelli Totò, che doveva avere ammaliato anche le suore, ottenne il permesso di portare alcuni di noi in barca, bambini e bambine, Angela compresa, naturalmente. La signora Filippa invece non volle sentire ragioni:
- Pazzi siete, io mi scantu...
Letizia, sua figlia, però non aveva paura, almeno così disse e svelta saltò in barca mettendosi proprio vicino a me che spavaldamente m’ero già imbarcato, anche perché non volevo rimanere tra gli esclusi. Ed Angela -  la prima volta - poté sedere vicino a Totò... .


     Fu un viaggio infinito, veloce sull’azzurro complice delle onde, tenero per i palpabili sentimenti di due giovani innamorati che persi tra cielo e mare in quelle immensità misuravano i loro sogni, cullati da una brezza costante e fresca come una carezza. Come la carezza che la mano di Totò portò arditamente a quella di Angela, stringendogliela poi forte in un’esplicita promessa d’amore. La stessa che, con il consenso della Signora, sua tutrice, si realizzerà sei mesi dopo nella Chiesa di Mondello, la chiesetta dei pescatori, e mentre i due dicevano si davanti a Dio, io cantavo per la prima volta ad un matrimonio con la mia intonata vocetta bianca di bambino e tanta, tantissima commozione.

4 commenti:

  1. Che bel racconto papino mio!
    bellissimo e romanticissimo!

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  2. Qualcuno mi ha detto che quando io scrivevo questo racconto, Angela era già morta, suicida, da molti anni.
    Vorrei che questo tenero ricordo fosse un fiore sulla sua infelice tomba.

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