giovedì 8 maggio 2014

L' Abbandono (da Collegio, ricordi di un orfano di Dario Temperino)



Una bimba dall’età indefinita, ricciola, moretta di capelli e pelle, un filino di moccio al naso, tirò il grembiulino di una compagnuccia che le stava avanti e sottovoce, come se le confidasse un segreto, le disse indicando mia moglie:
- A viri? chidda è me' matri[1]... .
Quanta speranza, quanta aspettativa in quella innocente bugia, che bugia non era poi neppure del tutto perché - nel suo intimo - l’orfanella voleva che così fosse per quell’istintivo bisogno di sentirsi viva, una bimba fra bimbi che aspirava a crescere, a vivere...
...e la vita che a quell’età ti appare lunghissima, eterna, ti porterà lontano da qui con il fardello delle cose che hai più o meno inconsciamente imparato e le tante che via via ancora dovrai apprendere nelle altre scuole che frequenterai, dalle persone incontrate, dall’ambiente nel quale - tuo malgrado - ti troverai immerso, dai tanti errori che fatalmente commetterai.
In tutto questo divenire, ti rendi conto che una sola cosa resterà sempre con te, una cosa della quale mai riuscirai a liberarti, che altro non è che quella sensazione di solitudine e di abbandono; quella certezza d’essere solo al mondo e di dovertela sempre cavare da solo per sopravvivere.

Questa evidenza prende corpo nel momento stesso in cui, messo piede in collegio, hai visto chiudersi alle spalle di tua madre il grande cancello verde che tranciava prematuramente il cordone ombelicale con la tua famiglia e solo adesso faceva di te un bambino solo,  veramente un orfano.
Nel corso della tua vita, qualunque essa sarà, fortunata o disgraziata, incontrerai un’infinità di persone d’ogni tipo, uomini e donne che a primo acchito potranno apparirti come te, altri migliori, alcuni perfino straordinari, ma poi tutti si confonderanno nella tua mente e tutti dimenticherai perché troppo simili tra loro, e troppo differenti da te, non avendo loro condiviso con te quel qualcosa che fa te diverso da tutti gli altri: il collegio.
In collegio si cresce in fretta perché non hai più attorno a te quella sicurezza che si chiama famiglia, la quale nella dipendenza dai genitori, segna i tempi naturali dell’infanzia, la stessa alla quale ogni bambino ha diritto per raggiungere quell’equilibrio con il quale domani si muoverà nel mondo degli adulti.
E cresci ancora più in fretta perché l’amore materno qui diventa più solo un’aspirazione, qualcosa che - senza che tu riesca a fartene una ragione e nello sconforto più nero indotto dall’ingiustizia di quanto ti accade - inaspettatamente viene a mancarti in modo viscerale, quasi che venissi privato in sol colpo delle gambe o della vista. Senza di lui t’incupisci, alla ricerca come sei del bene perduto che mai più ritroverai, neppure quando sarai ripreso in famiglia, perché a mancarti é esattamente quell’amore che non hai ricevuto in quegli anni del tuo abbandono.

Perché l’amore materno non è qualcosa di materiale che tu possa toccare, togliere e rimpiazzare a tuo piacimento: esso è un legame ininterrotto, fatto di sguardi, contatti, sensazioni, sorrisi, gesti, dolcezze, paure, umori, baci, fremiti, osservazioni, perfino scapaccioni, e poi ancora di trepidazioni, speranze, profumi, suoni, esitazioni, dubbi, smarrimenti..., che mai viene meno e nel quale la creatura confida fin dal momento del suo insediamento nel caldo del ventre, nel buio consolatore, nell’umore che tutto avvolge, protegge, cresce..., finché non esce alla luce abbagliante della vita.



[1] Tr.: La vedi? Quella è mia madre.