giovedì 23 gennaio 2014

U zzu cu' la varba (da Collegio, ricordi di un orfano di Dario Temperino)



      Anche sul marciapiedi di fronte alla scuola, trovavi quasi sempre le stesse reti  dalle toppe bianche inserite qua e là con la pari abilità, solo che qui regnava il silenzio, rotto talvolta dall’occasionale scivolare del filobus che tornava a Palermo, o dall’improvviso ed argentino vocio dei bambini che entravano a scuola, o ne sciamavano felici al termine delle lezioni. Perché qui il pescatore era uno solo: lui non cantava mai, né sembrava accorgesi di quanto avveniva attorno a lui.
     Seduto a terra, gli alluci nelle maglie della rete tesa, muoveva l’agile spola in silenzio riparando i guasti sulla vecchia rete, poi con gesti meccanici ritirava il tutto in grosse ed ordinate matasse per l’uso della notte successiva e, senza guardarsi attorno o proferire parola, rientrava a testa bassa a casa sua. A questa si accedeva per una porta finestra a doghe dalle gelosie mobili, quali quelle che in Sicilia ne trovi tante, che si apriva proprio a fianco al portoncino della scuola. Una stanza o forse due, una latrina e niente di più.

     Era un uomo che incuteva soggezione e rispetto; alto, o per lo meno tale appariva a me che ero piccolo, tanto magro da sembrare rinsecchito dal sole, dall’età indefinita, il viso rugoso scavato dalla salsedine comune a tutti i pescatori, ma con l’aggiunta di una fluente barba bianca, la più bianca e la più lunga che avessi mai visto perfino sui disegni o le fotografie dei libri di scuola. Viveva tutto solo. Non parlava e non alzava mai gli occhi su nessuno, salvo forse quella volta che posò, per un lungo momento, lo sguardo su di me che m’ero attardato una mattina accanto a lui intento, come sempre, a ricucire la rete: due occhi interrogativi, d’un azzurro giovane, intenso, penetrante. Mi sottrassi a quello sguardo fuggendo via di corsa e riparando dentro l’androne  della scuola, con il cuore in subbuglio perché “u zzù cu la varba”, “lo zio con la barba”, come tutti lo chiamavano, m’aveva guardato.

     Ero affascinato da u zzù cu la varba, dove forse quello “zio” era quanto rimaneva d’un retaggio antico, comune a tutto il Mediterraneo, dove con quella parola s’esprimeva - in un unico e breve suono, quasi un sospiro - affetto, rispetto, dignità.
Col tempo, dal quel giorno in cui m’aveva guardato, mi pareva d’avere stabilito con lui una sorta di tacito, complice legame sicché, al mio giungere nei pressi della scuola affrettavo il passo per guadagnare quel minuto o due che mi consentisse di sostare con più agio accanto a lui, in silenzio, senza disturbare, e godere di quella fugace serenità che la sua vicinanza sembrava darmi.      
     Il vecchio continuava a testa bassa il suo lavoro, senza mai una parola o un cenno di fastidio, anzi ormai ero certo che aveva preso ad aspettarmi e che sarebbe rimasto deluso non mi fossi più fermato.

     Non ricordavo che mai qualcuno fosse andato a trovarlo o avesse con lui scambiato due parole, quindi fui sorpreso quella mattina di vedere un piccolo assembramento di adulti davanti alla sua portafinestra: mi staccai di corsa dalla fila dei miei compagni e, spinto da non so quale presentimento, riuscii a sgusciare tra gli uomini e le donne che colà davanti s’ammassavano. Facendomi largo entrai per la prima volta in quella casa: lui era là, steso sopra un lettino, vestito di tutto punto con camicia pulita e pantaloni tirati giù fino alle caviglie, le braccia in croce sul petto, la barba pettinata a coprirgli le mani. Aveva perfino le scarpe ai piedi, cosa che non m’era mai capitato di vedergli prima, perché i pescatori le scarpe le mettevano solo la domenica per andare in chiesa e lui in chiesa non l’avevo mai notato.
     Capii che era morto, anche se sembrava dormire, tanto il suo volto era sereno e disteso. Erano quelle braccia incrociate a rivelarne lo stato, quelle braccia forti anche in vecchiaia, che mai s’erano incrociate prima e nelle quali, incosciamente, avevo tante volte desiderato d’essere cullato.

     Non era neanche il primo morto che mi accadeva di fissare: due anni prima avevo visto di sfuggita mio padre steso nel suo letto maritale, stessa posizione delle braccia, un rosario fra le dita, vestito di tutto punto come se dovesse uscire per una festa o un appuntamento importante, ed anche le scarpe lucide ai piedi. Poi qualcuno mi aveva portato via da quella stanza dove io, troppo piccolo per capire, percepivo solo tanta confusione e disagio.
     Questa volta, invece, scrutavo u zzù cu la varba con occhio diverso, più cosciente, quasi con indiscreto interesse. Ne contavo le rughe profonde della fronte e del viso, i fili della barba che ora m’apparivano singolarmente spessi, grossi e tormentati. Inconsciamente speravo che riaprisse quegli occhi azzurri come il mare da lui solcato centinaia, migliaia di volte sulla fragile sua barchetta di pochi metri; mare dal quale aveva tratto il sostentamento di quella sua esistenza che finiva così, senza preavviso, cancellando una vita di chissà quali emozioni, gioie, sacrifici. E per la prima volta provai un indefinito e rabbioso senso di ribellione, incapace com’ero di farmene una ragione.

     In quell’esame che tanto sconvolgeva i miei sentimenti, casualmente lo sguardo si posò sulla sua bocca incorniciata dai fili bianchi dei baffi e della barba, sorprendendomi a considerare che non l’avevo mai vista da quella prospettiva: ad un angolo di essa credetti di scorgere traccia di un fuoriuscito umido filo scuro, che nessuno aveva provveduto a ripulire. Turbato da quella disgustosa vista, scappai di corsa, come spaventato, raggiungendo trafelato la classe dove i miei compagni era già tutti seduti al proprio banco. La maestra mi guardò con preoccupata apprensione: qualcuno le aveva riferito dove ero stato e dal mio pallore intuiva il grande turbamento di cui ero preda, poiché tutti quanti conoscevano il legame che avevo stabilito con quel vecchio pescatore.
- Stamattina, prima di cominciare le lezioni, parleremo d’u zzù cu la varba e diremo una preghiera per lui... .
     Cominciò col dire che era stato un uomo buono ed bravo pescatore, ma questo lo sapevo già.        
    Quel che non sapevo è che era stato sposato e che aveva avuto anche due figli maschi, alti, belli e forti come lui. Poi era scoppiata la guerra ed i ragazzi erano stati imbarcati su un incrociatore senza fare più ritorno in quella casetta. La moglie, a seguito di ciò s’era ammalata, lasciandosi morire per il dolore e u zzù cu la varba, da allora, non s’era più rasato e non aveva mai più parlato con nessuno.


Quel racconto l’ho custodito sempre nel mio cuore insieme con l’immagine di quel vecchio dalla barba bianca che una mattina, quasi per caso, aveva posato il suo limpido sguardo su di me, un orfano lontano da casa, in disperata ricerca d’un cenno d’affetto.

martedì 21 gennaio 2014

RICORDI: La mia maestra (da “Collegio, ricordi di un orfano” di Dario Temperino)


Di quella scuola (elementare di Mondello) ho dei ricordi tenerissimi.
      Poiché avevo frequentato la primina a Palermo, ero stato iscritto alla seconda facendo conoscenza con la mia adorata maestra, la signorina Maria Concetta B., non bella, non alta, e forse anche non più giovanissima. Ne ricordo il volto rotondo incorniciato dai capelli castani, mossi e divisi lateralmente dalla riga a sinistra che non riusciva, tuttavia, a domare qualche ricciolo ribelle sulla spaziosa fronte; le guance dall’incarnato arrossato mettevano in evidenza una rada peluria bionda, che la credenza popolare vuol riconoscere in chi ha sofferto i morsi della fame per lungo tempo. Sapeva di fresco e di pulito.
      Non so perché, ma avevo la sensazione che non fosse una donna felice, però era un’insegnante attenta, motivata, capace d’apparire materna e severa ad un tempo. Veniva tutti i giorni da Palermo e, molto più tardi, scoprirò che viveva ancora con i genitori in un quartiere bene della città, indice d’una buona estrazione sociale.

Ho amato moltissimo questa maestra, la “signorina”, che mi ha accolto in 2^ e poi, per mano, mi ha condotto alla licenza, attraverso due esami  - in 2^ ed in 5^ - ma soprattutto, lasciandomi più di quanti altri mai insegnanti mi daranno nel resto della mia lunga  e complessa vita d’istruzione.
      Lei sola, una e trina, e senza neppure la collega di sostegno, e Dio sa se c’erano - nel dopoguerra - bambini abbisognosi di sostegno.
      Mi sorprendo spesso a pensare: questo l’ho imparato alle elementari e mi chiedo come fosse possibile che apprendessi, immagazzinassi ed assimilassi tutte quelle nozioni.
      Allora s’insegnava con naturalezza, senza periodi didattici studiati a tavolino e senza ausili più o meno artificiali: no i variopinti regoli ed i laboratori sperimentali, men che mai i costosi tablet che erano di là da venire.
      Io avevo grande difficoltà a leggere: che fossi leggermente dislessico? Può darsi, ma non lo sapremo mai, e ciò, comunque, rappresentò una tragedia solo per quanti mi avevano compagno di squadra nel corso di una delle tante gare di lettura che periodicamente facevamo.
      Sorvolando sul fatto che ho imparato a leggere, scrivere ed a far di conto, cosa naturale e che era anche il minimo che ci si potesse aspettare, alle elementari imparai a rispettare la natura, ricordate le feste degli alberi? Ancor oggi non strappo una foglia da un albero: tutto quello che so della circolazione del sangue l’ho imparato allora; così come quasi tutto quello che so sugli antichi Romani e le relative leggende di cui era infiorettata quella loro storia.
      Ma ricordo anche il primo Sputnik, nonché la gran voglia di primeggiare nella gara radiofonica di “Campanile sera”, dove in classe si compilavano le cartoline da inviare alla Radio per far vincere alla nostra città, Palermo, il “Campanile d’oro” del peso di un chilo. Correva l’anno 1955 ed io lo ricordo ancora, il che vuol dire che quella scuola e, soprattutto, quella maestra non ci dava solo le striminzite nozioni scolastiche per le quali era mal pagata, come si direbbe oggi, ma ci educava anche ad essere parte di una società viva ed attiva.
      Cosa dire della sua umanità?
      Si, usava anche lei la bacchetta, generalmente la riga di legno che usava solo sulle palme delle mani, perché sul dorso c’erano le nocche ed i colpi avrebbero fatto più male. Per dare una bacchetta, chiamava alla lavagna e ti chiedeva:
      - Ti rendi conto che ti stai comportando veramente male? Dammi le manine!
      Quando si tornava al posto, generalmente sentivi la solita frase pronunciata da duro:
      - ‘u me fici nenti...
      Lei faceva finta di non avere sentito, ma credo fosse più contenta e forse anche rassicurata, mentre lo spaccone di turno, al di là dell’atteggiamento esibito, appariva comunque mortificato. Così almeno a me sembrava, perché quel paio di volte che toccò a me, mortificato io l’ero per davvero.
      Quale maestra cuce di notte i costumi di carnevale per la recita scolastica, non già dei suoi figli, ma dei suoi alunni; quale compra la foto ricordo della classe per i suoi alunni poveri e gliela regala; chi paga i francobolli per un concorso radiofonico al quale fa partecipare i ragazzi per insegnare loro che devi amare la tua città e farla primeggiare?
      No, la mia maestra non era giovanissima e neppure ricca: a mio giudizio di adulto e padre di famiglia, che ha patito lo spettacolo desolante della scuola d’oggi,  posso dire che era solo motivata.
      Non avevamo libri; non avevamo che due quaderni, uno a righe ed uno a quadretti e talvolta neanche quelli; sicuramente non avevamo zainetti firmati da 28 chili sulle spalle, né diari griffati, e nelle tasche dello sdrucito, ma pulito, grembiulino nero trovavi, al massimo, un paio di tappi per il gioco "a sottomuro" o una vecchia figurina di Tarzan, non certo l’ultimo modello di cellulare.
      La refezione scolastica era riservata ai bambini poveri, il che vuol dire a quasi tutti, ma la maestra rimaneva in piedi, avrebbe mangiato alle 14:30 quando sarebbe finalmente rientrata a casa. Si fosse seduta nessuno avrebbe obbiettato, ma lei sapeva che quel pasto non era stato confezionato per lei e non lo consumava. E con ciò, con l’esempio, la mia maestra, la mia signorina, mi ha insegnato ad essere onesto, corretto, a prendere sempre e solo ciò che mi spettava nella vita, ciò che era mio, e talvolta neanche quello, perché avrebbe potuto esserci qualcuno più bisognoso di me.
      Sono rimasto in contatto con lei finché non mi sono tornate indietro le lettere che, uomo fatto, periodicamente le indirizzavo da oltre trent’anni.

giovedì 16 gennaio 2014

Riflessioni: Genitori e figli


Sono genitore e ne ho sentito tutta la responsabilità... . 
Credo anche di essere stato un buon genitore, magari non il migliore, ma ce l’ho messa tutta. 
Non credo che si possano dettare delle regole per aiutare un qualcuno ad essere un buon genitore, poiché ciascuno di noi s’arroga il diritto di crescere i propri figli a propria immagine e somiglianza. E’ un fatto culturale che affonda le proprie radici sulle esperienze personali, sulla consapevolezza della grande responsabilità che ci deriva dalla procreazione e sulla personale accettazione del nuovo stato di genitori.
Sono convinto che il tutto parta dalla considerazione che si ha di se stessi, della propria vita, del proprio lavoro; in altre parole di quanto ciascuno di noi si ritenga soddisfatto del proprio io.

Personalmente, ho voluto crescere i miei figli nel culto dei valori nei quali credo fermamente: il senso del dovere; la responsabilità, l’istruzione; l’orgoglio del proprio lavoro; il senso dello Stato; la rettitudine sempre e comunque, anche contro il proprio interesse; la competitività; la consapevolezza del posto che occupi nella società, nonché le responsabilità che ne derivano; la pietà verso il prossimo; la giustizia... . 
Ho sperato e pregato perché diventassero migliori di me.

Non ho mai mollato, non ho mai perso di vista l’obiettivo che era quello di farne un uomo e una donna degni di questo nome.  Dapprincipio col gioco, sempre con l’esempio.
Fin da piccoli, i miei figli partecipavano con il loro parere alle decisioni prese in famiglia, anche le più importanti. Con la crescita sono stati responsabilizzati al loro livello: la scuola era il loro lavoro, pari a quello del papà che usciva da casa ed a quello della mamma che provvedeva a tutti noi. Non ho mai delegato ad altri, neppure alla scuola, alla parrocchia o alla palestra...: tutte queste istituzioni sono state intese solo un corollario, comunque da sorvegliare.
I miei figli sono stati sostenuti da un amore a tutta prova, manifestatosi in forme diverse, a seconda dell’età, dal tenero aiuto alle prime aste sul quaderno, alla disponibilità a prestare orecchio ai loro sfoghi per le prime delusioni, i primi dispiaceri... .

Oggi i miei figli sono grandi e si sono addentrati nella vita con le proprie gambe..., ma sanno che ci sono e che ci sarò ancora, almeno per qualche anno, spero.