venerdì 14 giugno 2019

Il pianoforte




In casa ho un pianoforte, un Neumayer datato Berlino 1902.
L’ho trovato in pessime condizioni presso un mobiliere che, chissà dove l’aveva preso, apprezzandone solo la bella radica. 
Tornavo frequentemente nella sua esposizione per vederlo e quello, il mobiliere, mi prendeva in giro: non vale niente, se vuoi, te lo tiro dietro per un milione e mezzo.
Ed alla fine lo presi, anche se ero in ristrettezze perché stavo costruendo casa, ma amavo quel pianoforte, me ne ero innamorato a prima vista. 
Mentre ancora era lì nell’esposizione del mobiliere, andavo a liberarlo dalla polvere e ne sfioravo con delicatezza la tastiera dai tasti d’avorio consumati negli angoli, come se fossero stati pestati tutti i giorni, per anni, per decenni, con forza, con amore, per tante, tantissime ore.

Osservandolo, immaginavo dietro a quella tastiera una compunta bambina dalle trecce bionde che studiava musica. 
Sull’eco di quelle note la bimba diventava adolescente e, continuando a suonare, era donna, madre, nonna...
Quando, alfine, il pianoforte tacque, finì nel magazzino del mobiliere, mobile fra gli altri mobili.
 
Oggi è con me..., bello, lucido, restaurato. 
Un’altra bimba l’ha suonato, le sue trecce erano brune, ... e quando anche quella è diventata donna ed ha lasciato questa casa, il pianoforte é restato con me.
Non sai neppure quante volte l’accarezzo con lo sguardo, quante volte mi seggo all’accosta poltrona per ascoltarne la silente musica che una presenza femminile continua a suonare per me sulla sua ingiallita tastiera.

martedì 4 giugno 2019

Al buio



I racconti bui della mia infanzia li ho sentiti, rubandoli, a casa di mia nonna..., allora mio padre era malato e, durante le vacanze estive, mia madre mi mandava volentieri dalla nonna che viveva a ..., un paesino della Sabina, in provincia di Rieti.
I nonni materni erano gente semplice, di paese, che vivevano spaccandosi la schiena con quanto ricavavano dalla campagna, in parte condotta a mezzadria. Soprattutto mia nonna era rimasta legata alle tradizioni contadine che la volevano rispettosa e sottomessa ai “padroni”, specie dopo che il nonno era stato licenziato dalla “ceramica” perché portavoce delle rimostranze dei compagni di lavoro in sciopero. Questi l’avevano eletto loro rappresentante, ma una volta ottenuto quello in cui speravano, gli avevano voltato le spalle e nessuno aveva protestato per il suo licenziamento.
Erano gli anni bui del dopoguerra ed un posto di lavoro faceva la differenza... .
Lei aveva imparato la lezione; il nonno no, lui non s’era mai piegato e, forse proprio per questo, tutti in paese continuavano a rispettarlo.
Allora io avevo forse cinque anni e la sera, quando il sole tramontava, mi mandavano a letto, perché i grandi dovevano parlare.
Loro, i grandi, rimanevano accanto all’enorme camino nel quale Nonna Rosina aveva cucinato, finché anche l’ultima brace non si fosse consumata, piombando la stanza nel buio più assoluto e nel freddo della notte.
Prima di farmi vincere dal sonno, dal mio letto nella stanza accanto alla grande cucina, ero uso ascoltare quello che i grandi si dicevano.
Talvolta arrivava un fratello del nonno o della nonna, oppure un vicino, un conoscente ed i toni si alzavano, consentendomi di carpire meglio le parole in libertà.
Chissà perché, man mano che la sera si faceva più tarda ed il buio più fitto, i loro discorsi prendevano pieghe paurose che cominciavano a popolare la mia stanza di ombre fatue e di occhi fosforescenti.
Seppi così di una tale che la notte si trasformava in un gatto zoppo per andare a spiare i vicini; e perfino della mammana che metteva insieme misteriosi filtri per far morire i bimbi prima che nascessero. Che fortuna che io fossi già nato!
Poi c’era Dorina, la moglie del giornalaio cieco, che tutte le notti dava la medicina al marito per farlo dormire e, poi, riceveva il prete per... le preghiere della sera, che duravano fino all’alba.
Il giornalaio si chiamava Tonio ed era amico mio; andavo spesso nella sua microrivendita che era proprio lì all’angolo, nello stesso corpo di casa dei nonni.
Lui riconosceva il mio passo, immagino oggi, perché mi salutava per nome ancor prima che avessi messo piede nell’edicola e mi lasciava guardare i giornaletti che la nonna non mi comprava “perché erano soldi sprecati”.
Lui sapeva sempre esattamente dove trovare tutto ciò che vendeva e, quando richiesto, lo prendeva con tale sicurezza che sembrava ci vedesse.
Non solo, ma registrava anche ogni operazione su un foglio sopra il quale era posato un righello metallico, meglio dire una stretta bacchetta di rame sulla quale spiccavano piccoli ed ordinati buchi quadrati che lui cercava, al tatto, con un apposito punzone. Quindi spostava la bacchetta e leggeva ad alta voce l’appunto, scorrendo sul foglio bucherellato il dito indice. Come facesse per me rimane un mistero ancor oggi nonostante lui, più volte, avesse cercato di spiegarmi che quell’insieme di buchi erano parole.
Dorina, sua moglie, era una donna piccola, grigia e con i baffi che, per mia fortuna non c’era mai nel negozio del marito.
Non mi piaceva Dorina perché ti guardava con degli occhietti simili a due punte di spilli.
No, non mi piaceva proprio Dorina, anche se diceva le preghiere tutta la notte con il don al quale servivo messa tutte le mattine che il cielo mandava.
Una notte ebbi a svegliarmi, evidentemente disturbato dal chiacchiericcio della stanza accanto. Come d’abitudine tesi l’orecchio ed ebbi un sussulto, un tuffo al cuore: la voce che udivo nel buio, dietro la porta chiusa, era quella di mia madre.
Avevo tanta nostalgia della mia mamma poiché non la vedevo da molto tempo; inoltre mi sentivo a disagio dai nonni che erano vecchi ed io non amavo stare lì dove tutto era così diverso da casa mia e tutto era proibito.
I miei nonni materni non erano da coccole, non ne avevano il tempo, presi com’erano a mettere insieme il pranzo con la cena ed a raggranellare una lira sull’altra per pagare il mutuo della casa acquistata quando ancora il nonno era in ceramica. Per fortuna che c’era zia Luciana, l’unica figlia rimasta in casa da sposare e lei era giovane e bella...
Ma perché la mia mamma non veniva da me?
Restava in cucina a parlare con i nonni, invece di venire a darmi un bacio, una carezza.
Mi era proibito alzarmi dopo che ero stato messo a letto per la notte. Ma io sentivo la voce della mamma che non vedevo da tanto tempo e per lei morivo di nostalgia.
Io ero un bambino ubbidiente, ma non m’era vietato chiamare avessi avuto bisogno di qualcosa, così presi coraggio e, sulle prime flebilmente, cominciai ad invocare:
- Mamma, mammina...
Poi più forte, sempre più forte:
- Mamma, mamma...
Infine disperato:
- MAMMA, STEFANIAAAA...
Nulla, nessuno: né quella che mi sembrava essere la mia mamma, né la nonna e neppure la zia Luciana...: ero stato abbandonato, ero solo al mondo!
O almeno così credetti prima di addormentarmi sfinito e sconsolato.
Da lì a poco sarei entrato in Collegio..., ma quella è un'altra storia.

giovedì 16 luglio 2015

Il Modello 730 precompilato

Da sempre faccio da solo da mia dichiarazione dei redditi, dai tempi in cui non c’erano ancora i computer, per cui sono uno di quelli che ha sudato sulle istruzioni scritte in “burocratese - ostrogoto”.
Poi sono arrivati i computer, e l’Agenzia delle Entrate che mise in rete i suoi primi software, bastava registrarsi, una cosa lunghissima per la verità, ma alla fine ce la facevi, salvo che per l’invio, fase nella quale ti capitava di avere spesso dei grossi problemi.
Il fatto è che l’Italia, oltre ad essere il paradiso degli evasori, dove gioiellieri, avvocati, medici e notai sono più poveri di me, miserrimo dipendente pubblico, è anche lo Stato dove i pochi fessi che pagano le tasse, che poi sono solo quelli che materialmente non possono evadere, appunto i dipendenti ed i pensionati, faticano sette camicie per adempiere al loro dovere.

O forse dovrei dire, faticavano, perché quest’anno è entrato in vigore il 730 precompilato ed insieme anche l’Unico Persone Fisiche precompilato come l’altro.
Ma si sa, questo è anche il Paese delle polemiche tanto per dare aria ai denti, per cui, benché nessuno l’avesse ancora visto, che in tv, alla radio, sui giornali e perfino al vicino Bar dello Sport, esperti d'ogni estrazione, o presunti tali, ne dicevano peste e corna.

A me era scaduto il PIN e l’ho avuto in venti minuti, altri venti per aggiornare i dati di accesso, leggere le istruzioni, concise e chiare dalla Homepage. Quindi ho aperto il 730 e l’ho trovato semplice, preciso, ed anche completo, sicché nel giro di poco più di un’ora la mia dichiarazione era completata e spedita senza difficoltà.
E’ vero si potrà ancora da implementare, ma diciamocelo francamente: si è fatta troppa polemica per niente. O forse, a questo punto, devo ritenere che la polemica sia stata sollevata ed alimentata da quelle categorie che una simile agevolazione danneggia, vedi commercialisti, patronati ed affini?

venerdì 31 ottobre 2014

VIAGGIO IN SICILIA



Siamo a fine stagione ed ormai sembra che l’estate sia solo più un ricordo. Peppino, il mio amico del cuore, ha organizzato una cena alla Trattoria Italia, niente di particolare, una serata informale tra amici, alla quale è stata invitata anche una sua cugina di passaggio da queste parti e che lui non vede da anni. Così eccoci finalmente tutti insieme gli amici della compagnia, seduti attorno ad una tavola apprestata come si conviene e montagne di affettati casarecci che fanno l’occhiolino dal suo centro.
Rimangono due posti vuoti:
- Mia cugina è ritardo, peggio per lei, noi cominciamo e ...chi tardi arriva male alloggia.
Dopo il primo giro di buon nebbiolo, Andrea, famoso per non essere mai uscito della cerchia di mura della suo paesello, ci strabilia:
- Quest’anno ho passato una settimana a Viserbella! Sole, mare, vita notturna, abbuffate... che vita, ragazzi, che vita...
- Ma che dici? La Riviera sarà pure divertente, ma vuoi mettere il mare di Santorini?
E’ Giovanni a parlare.  Talvolta ho il sospetto che giri per il Mediterraneo solo per potersene vantare con gli amici fino al giugno successivo. Ed infatti continua:
- Ma vuoi mettere? Certi tramonti che tingono tutto di rosso! Ed il pesce comprato direttamente da pescatore sulla barca, arrostito sugli scogli e mangiato all’istante con solo un po’ di limone per tutto condimento...
In quello si spalanca la porta ed una voce femminile flauta forte:
- Ma ciao, Pinottello mio...
Peppino si alza prontamente, gentiluomo qual è, gira attorno al tavolo, l’abbraccia.
- Questa è mia cugina Marcella, amici, e questo è suo marito...
Non me ne ricordo più neppure il nome.
Marcella, la cugina, è stata sicuramente una bella ragazza che, ormai, veleggia sicura verso i cinquanta, conservando sul volto il ricordo di molte tempeste. Come non bastasse è decisamente fuori posto: elegante nel suo vestitino di pizzo bianco da bambola ed ingioiellata come una Madonna del Sud.
Suo marito si guarda attorno con l’aria schifata, e pare voglia dire: Oh Dio, una trattoria, ma come siamo finiti qui? Prendono posto. Lei è di fronte a  me, lui alla sinistra di mia moglie.
- Cosa stavamo dicendo? Ah si..., Santorini...
Il vivace scambio di opinioni riprende tra i due vecchi amici, dove l’uno che vuol convincere l’altro d’aver passato delle vacanze migliori. E’ una vecchia storia che si rinnova da anni, finché la conversazione sembra finalmente languire nel disinteresse generale ed io, per essere cortese e coinvolgere i nuovi arrivati, chiedo:
- E voi cosa avete fatto questa estate?
Lui sta per aprire bocca ma la bella Marcella lo fulmina con lo sguardo:
- Dovevamo andare ai Caraibi, ma poi quello sciocco uragano ci ha rovinato la vacanza ed al Ministero degli esteri ci hanno sconsigliato di partire parlando di disastri, gente per le strade con problemi di ordine pubblico e neanche un ristorante decente rimasto in piedi - aggiunse guardandosi attorno, come se vedesse per la prima volta la trattoria, e prendesse con orrore del suo squallore.
- Ci hanno suggerito: ma perché non andate in Sicilia? 
- Noi che siamo dotati di un grande spirito d’avventura, ci siamo detti:  ...e perché no? Va beh che c’è la mafia, va beh che parlano strano, ma cosa ci costa? Un albergo decente ci sarà di sicuro pure lì, no? E se poi dovessero sparare... un po’ di far west con la coppola... non potrà mica farci male.
E giù una risata tra l’isterico ed il gioioso, guardandosi attorno come a ricevere approvazione e solidarietà per la battuta reputata intelligente.
Io ho i fumi e mia moglie, che mi conosce, m’ha già rifilato una tacchettata sul malleolo destro per strozzarmi in gola il vaffa che stava lì lì per partire.
- Siamo scesi all’Hotel Villa Igea, il miglior cinque stelle di Palermo... - continua che la gran dama la quale, preso l’abbrivio, sembra non trovare più freni al suo soliloquio.
- Niente male, per essere a Palermo. Non che sia all’altezza del Le Faubourg di Parigi, intendiamoci, ma ce la mettono proprio tutta, poverini.
Vorrei interromperla, dire qualcosa, ma quel fiume di parole ha ormai rotto gli argini e non consente in nessun modo di interloquire. Guardo verso Peppino e lui, di rimando, fa spallucce. Il solito debosciato che lascia gli amici a cavarsela da soli nel momento del bisogno.
Intorno una desolazione di visi rassegnati,  uomini e donne sembrano quasi ipnotizzati dalle quelle labbra sfiorite che si muovono alla cadenza di una mitragliatrice tedesca della seconda guerra mondiale. Dubito che sentano altro che un sottofondo stridulo ed indistinto.
- Pensate, amici, faceva un caldo, ma un caldo, che le scarpe rimanevano attaccate all’asfalto e la gente, per trovare un po’ di refrigerio mangiava il panino col gelato... .
A questo punto, avendo già la caviglia tumefatta per le gran botte ricevute e nella speranza di prevenirmene la prevedibile frattura, mi alzo rumorosamente dal tavolo e sbotto:
- Dai, moglie, andiamo. Per stasera ne ho abbastanza. Peppino quando avrai un po' di tempo, ti sarei grato se spiegassi a questa logorroica di tua cugina che in Sicilia la gente preferisce il gelato nelle brioche a quello sul cono, ma forse per lei questo concetto rimarrà del tutto incomprensibile, visto che non ti lascia spazio per aprire bocca.
Il gelato nel panino..., ma che cretina!

giovedì 8 maggio 2014

L' Abbandono (da Collegio, ricordi di un orfano di Dario Temperino)



Una bimba dall’età indefinita, ricciola, moretta di capelli e pelle, un filino di moccio al naso, tirò il grembiulino di una compagnuccia che le stava avanti e sottovoce, come se le confidasse un segreto, le disse indicando mia moglie:
- A viri? chidda è me' matri[1]... .
Quanta speranza, quanta aspettativa in quella innocente bugia, che bugia non era poi neppure del tutto perché - nel suo intimo - l’orfanella voleva che così fosse per quell’istintivo bisogno di sentirsi viva, una bimba fra bimbi che aspirava a crescere, a vivere...
...e la vita che a quell’età ti appare lunghissima, eterna, ti porterà lontano da qui con il fardello delle cose che hai più o meno inconsciamente imparato e le tante che via via ancora dovrai apprendere nelle altre scuole che frequenterai, dalle persone incontrate, dall’ambiente nel quale - tuo malgrado - ti troverai immerso, dai tanti errori che fatalmente commetterai.
In tutto questo divenire, ti rendi conto che una sola cosa resterà sempre con te, una cosa della quale mai riuscirai a liberarti, che altro non è che quella sensazione di solitudine e di abbandono; quella certezza d’essere solo al mondo e di dovertela sempre cavare da solo per sopravvivere.

Questa evidenza prende corpo nel momento stesso in cui, messo piede in collegio, hai visto chiudersi alle spalle di tua madre il grande cancello verde che tranciava prematuramente il cordone ombelicale con la tua famiglia e solo adesso faceva di te un bambino solo,  veramente un orfano.
Nel corso della tua vita, qualunque essa sarà, fortunata o disgraziata, incontrerai un’infinità di persone d’ogni tipo, uomini e donne che a primo acchito potranno apparirti come te, altri migliori, alcuni perfino straordinari, ma poi tutti si confonderanno nella tua mente e tutti dimenticherai perché troppo simili tra loro, e troppo differenti da te, non avendo loro condiviso con te quel qualcosa che fa te diverso da tutti gli altri: il collegio.
In collegio si cresce in fretta perché non hai più attorno a te quella sicurezza che si chiama famiglia, la quale nella dipendenza dai genitori, segna i tempi naturali dell’infanzia, la stessa alla quale ogni bambino ha diritto per raggiungere quell’equilibrio con il quale domani si muoverà nel mondo degli adulti.
E cresci ancora più in fretta perché l’amore materno qui diventa più solo un’aspirazione, qualcosa che - senza che tu riesca a fartene una ragione e nello sconforto più nero indotto dall’ingiustizia di quanto ti accade - inaspettatamente viene a mancarti in modo viscerale, quasi che venissi privato in sol colpo delle gambe o della vista. Senza di lui t’incupisci, alla ricerca come sei del bene perduto che mai più ritroverai, neppure quando sarai ripreso in famiglia, perché a mancarti é esattamente quell’amore che non hai ricevuto in quegli anni del tuo abbandono.

Perché l’amore materno non è qualcosa di materiale che tu possa toccare, togliere e rimpiazzare a tuo piacimento: esso è un legame ininterrotto, fatto di sguardi, contatti, sensazioni, sorrisi, gesti, dolcezze, paure, umori, baci, fremiti, osservazioni, perfino scapaccioni, e poi ancora di trepidazioni, speranze, profumi, suoni, esitazioni, dubbi, smarrimenti..., che mai viene meno e nel quale la creatura confida fin dal momento del suo insediamento nel caldo del ventre, nel buio consolatore, nell’umore che tutto avvolge, protegge, cresce..., finché non esce alla luce abbagliante della vita.



[1] Tr.: La vedi? Quella è mia madre.

mercoledì 30 aprile 2014

Domitilla

Mia figlia aveva compiuto 18 anni e non era ancora mai stata in Sicilia. Fu così che decisi di portarcela ed anche subito, approfittando di un periodo di rara calma per me che ero in comando.
Se non che non avevo tenuto conto della gatta Domitilla che, per di più, era anche incinta per la prima volta! Alla disperata convocai una delle donne che lavorava con la cooperativa delle pulizie e facendole balenare 100 euro sotto al naso, vinsi la sua ritrosia a prendersi cura dell’animale durante la mia assenza.
Ogni giorno telefonavo apprensivo ed infine appresi che la micia aveva partorito ben quattro piccoli che, però, a 24 ore della loro venuta al mondo erano spariti insieme con la madre.

Dieci giorni dopo feci rientro dalla Sicilia e, tali erano i miei sensi di colpa per quell’abbandono che, neppure un’ora dopo ero già a casa della brava donna la quale, imbarazzatissima, non sapeva cosa dirmi della gatta:
- Vede, arriva un paio di volte al giorno, mangia cosa trova in quella ciotola e sparisce nuovamente.
Mentre ascoltavo le sue querimonie, ecco un miagolio giungermi dall’alto; alzo gli occhi e scorgo Domitilla sporgersi dal ciglio del sovrastante sottotetto. Scende rapida, si struscia alle mie caviglie, adocchia il cestone che ho appoggiato a terra e rapida risale per due piani. Ricomparire con un batuffolo peloso in bocca, scende e lo ripone nel cesto, riparte e ridiscende con una altro cucciolo che sistema accanto al primo e così ancora due volte.
Il figlio della donna esclama:
- Ah, eccoli dov’erano... - e fa per avvicinarsi, ma Domitilla si smette tra il cesto e lui, pelo irto e la schiena inarcata, soffia rumorosamente quasi s’apprestasse a saltargli agli occhi.

Nel viaggio verso casa, dallo specchietto lancio occhiate d’ammirazione nel cestone posto sul sedile posteriore dove Domitilla lecca amorosamente i suoi piccoli.
Ormai m’è tutto chiaro: Domitilla partorisce ed il ragazzo incuriosito prova a prendere i piccoli. La gatta per proteggerli trova rifugio nel sottotetto e ne ridiscende solo quando mi vede arrivare per fare ritorno a casa.

Mi ha sempre permesso di accarezzare i gattini, ma per oltre un mese mi ha portato rancore per quell’abbandono e per tutto quel periodo non s’è mai lasciata accarezzare, né  mai m’è saltata in braccio come era solita fare. 

domenica 16 marzo 2014

PUTLER: Un pericoloso parallelo


Dopo la presa del potere, la politica estera hitleriana divenne via via sempre più aggressiva, sicché nel corso di pochi anni venne riarmato l'esercito; il 7 marzo 1936 fu rimilitarizzata la zona di confine con la Francia; il 12 marzo1938 fu sancita l'annessione dell'Austria (Anschluss); e, con la Conferenza di Monaco, il 1º ottobre 1938, sanzionata l'annessione della regione dei Sudeti, nonché quella di Boemia e Moravia il successivo 13 marzo del '39.
Il 23 agosto dello stesso anno, la Germania stipulato un patto di non aggressione con l'Unione Sovietica, avanza pretese territoriali su parte della Polonia,  il cosiddetto  corridoio di Danzica, invadendola il 1º settembre 1939, da qui lo scoppio della guerra con la distruzione dell'intera Europa e milioni e milioni di morti.
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Nella recente politica di Putin mi sembra di ravvisare gli stessi prodromi che portarono alla 2^ Guerra mondiale: 16 marzo 2014 plebiscito  e conseguente pronuncia della Duma di Mosca che ratificlerà l’annessione della Crimea alla Russia.
Contestuali annunci di Putin che l’Esercito russo, se chiamato in aiuto dalle delle minoranze russofone, interverrà con l’occupazione dei territori orientali della Repubblica Ucraina. E sappiamo già che ha ammassato 25 mila uomini a ridosso di quei confini, mentre agenti provocatori provvedono a sollevare i russi dell'Ucraina contro il governo centrale.
Alla luce di quanto già avvenuto in Georgia e di ciò che succede in Siria sotto l'ombrello di Mosca, credo che l’opinione pubblica mondiale debba cominciare a riconoscere il pericoloso parallelo tra quanto avvenuto 70 anni fa e quanto stia producendo di pericoloso per la pace e la stabilità l’aggressività dell’Orso russo e del suo zar Putin.
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In tutto ciò l’Italia rappresenta il ventre molle dell’Occidente a causa della sua enorme dipendenza dal gas russo, cosa che impedirà al nostro Paese di unirsi con convinzione ed affidabilità alle pur timide minacce di sanzioni che si vorrebbe adottare contro i rigurgiti imperialisti di Mosca.