Gli astronauti dalla loro capsula vedono uno straordinario pianeta azzurro e non s’accorgono dei conflitti che l’insanguinano. Anch’io, nel mio piccolo e molto più modestamente dal mio balcone del terzo piano, godo d’uno spettacolo che ha pochi uguali: un mare striato dal blu intenso all’azzurro chiaro, un romantico golfetto da cartolina illustrata, al cui centro s’eleva la foresta d’alberi dei panfili degli evasori fiscali che dondolano mollemente nel porto turistico.
Tutto ciò alla destra del balcone, perché a sinistra, fino a qualche anno fa lo spettacolo era ancora più bello e con la vista spaziavi per chilometri fin oltre il Circeo. Poi arrivarono bulldozer e idrovore che scavando sul bagnasciuga vi piazzarono un edificio residenziale di 5 piani fuori terra, privandomi dei fantasiosi miraggi con i quali la Maga Circe allietava le mie brevi vacanze estive.
Mia madre, riposi in pace, cui quello scempio è stato risparmiato, era innamorata di tanto dono divino: passava ore ed ore a quel balcone respirando a piani polmoni l’aria salmastra e fantasticando chissacché con lo sguardo perso oltre l’orizzonte lontano. Lei non scendeva mai in spiaggia.
Io, invece, ci vado perché - benché non sia un fanatico dell’abbronzatura - confesso che mi piace prendere un colore che appaia un po’ più sano di quel pallido nordico che fa tanto malaticcio. Ma la spiaggia comporta inevitabilmente quell’eterogenea promiscuità imposta dagli ombrelloni attaccati l’uno all’altro.
Può capitarti, così, d’imbatterti in un’umanità composita che non sempre capisci, tanto è lontana dal tuo standard di vita e dalle cose che in sessant’anni hai imparato ad amare. E, benché tu ti senta aperto al nuovo, hai radicate in te le tue esperienze, la tua visione del mondo, nonché i canoni della tua educazione che, inevitabilmente, condizioneranno questa tua disponibilità.
Sicché, quest’anno, la spiaggia non mi piace: non mi piace quello che vedo e quello che sento.
A parte una coppia di amici per i quali ho brigato onde averli vicini d’ombrellone, e se escludo una dolcissima nonna che ho conosciuto in acqua con i suoi nipotini, mi sembra d’essere circondato da un mondo livoroso, asociale e sostanzialmente ostile ed aggressivo.
Girando lo sguardo vedi solo gente arrabbiata: padri che picchiano i bambini e senti madri che urlano ai figli piccoli: che cxxxx vuoi?
C’è, una per tutte, una bella signora sui trent’anni, abbronzata da fare invidia ad una nera congolese e dal fisico statuario che non parla: ruggisce e digrigna i denti. Il suo sguardo torvo spazia da un ombrellone all’altro con aria di sfida resa ancora più esplicita dalle lunghe unghia finte che esibisce come armi letali.
La più parte dei giovani sembra non aver alcuno dei freni inibitori fra quanti imposti dalla buona creanza: s’impossessano del tuo lettino momentaneamente vuoto, meglio se su quello c’è il tuo asciugamano e, se invece ci sei, magari sdraiato, ti si seggono con noncuranza a lato. Il loro linguaggio farebbe impallidire d’invidia un lenone alle prese con una prostituta riottosa ed i modi strafottenti ed aggressivi preludono a litigi che puntualmente scoppiano ed ai quali s’uniscono in un battibaleno genitori e nonni in difesa dei cresciuti rampolli.
Tutti insieme m’appaiono come un branco minaccioso il cui ambizioso disegno sia quello di infastidire, disturbare, sopraffare..., sicché la spiaggia è diventata un luogo di disagio e la sua pericolosità è assimilabile a quella d’uno stadio nel quale si svolga un derby stracittadino.
Sul far della sera torni a casa e ti riaffacci da quel balcone: la vista ti restituisce l’immagine degli ordinati ombrelloni, dell’azzurro d’un mare calmo ed invitante, d’un cielo che si tinge di rosa agli ultimi raggi del sole che tramonta.
E mormori a te stesso: come tutto è più bello visto da quassù... .