venerdì 31 ottobre 2014

VIAGGIO IN SICILIA



Siamo a fine stagione ed ormai sembra che l’estate sia solo più un ricordo. Peppino, il mio amico del cuore, ha organizzato una cena alla Trattoria Italia, niente di particolare, una serata informale tra amici, alla quale è stata invitata anche una sua cugina di passaggio da queste parti e che lui non vede da anni. Così eccoci finalmente tutti insieme gli amici della compagnia, seduti attorno ad una tavola apprestata come si conviene e montagne di affettati casarecci che fanno l’occhiolino dal suo centro.
Rimangono due posti vuoti:
- Mia cugina è ritardo, peggio per lei, noi cominciamo e ...chi tardi arriva male alloggia.
Dopo il primo giro di buon nebbiolo, Andrea, famoso per non essere mai uscito della cerchia di mura della suo paesello, ci strabilia:
- Quest’anno ho passato una settimana a Viserbella! Sole, mare, vita notturna, abbuffate... che vita, ragazzi, che vita...
- Ma che dici? La Riviera sarà pure divertente, ma vuoi mettere il mare di Santorini?
E’ Giovanni a parlare.  Talvolta ho il sospetto che giri per il Mediterraneo solo per potersene vantare con gli amici fino al giugno successivo. Ed infatti continua:
- Ma vuoi mettere? Certi tramonti che tingono tutto di rosso! Ed il pesce comprato direttamente da pescatore sulla barca, arrostito sugli scogli e mangiato all’istante con solo un po’ di limone per tutto condimento...
In quello si spalanca la porta ed una voce femminile flauta forte:
- Ma ciao, Pinottello mio...
Peppino si alza prontamente, gentiluomo qual è, gira attorno al tavolo, l’abbraccia.
- Questa è mia cugina Marcella, amici, e questo è suo marito...
Non me ne ricordo più neppure il nome.
Marcella, la cugina, è stata sicuramente una bella ragazza che, ormai, veleggia sicura verso i cinquanta, conservando sul volto il ricordo di molte tempeste. Come non bastasse è decisamente fuori posto: elegante nel suo vestitino di pizzo bianco da bambola ed ingioiellata come una Madonna del Sud.
Suo marito si guarda attorno con l’aria schifata, e pare voglia dire: Oh Dio, una trattoria, ma come siamo finiti qui? Prendono posto. Lei è di fronte a  me, lui alla sinistra di mia moglie.
- Cosa stavamo dicendo? Ah si..., Santorini...
Il vivace scambio di opinioni riprende tra i due vecchi amici, dove l’uno che vuol convincere l’altro d’aver passato delle vacanze migliori. E’ una vecchia storia che si rinnova da anni, finché la conversazione sembra finalmente languire nel disinteresse generale ed io, per essere cortese e coinvolgere i nuovi arrivati, chiedo:
- E voi cosa avete fatto questa estate?
Lui sta per aprire bocca ma la bella Marcella lo fulmina con lo sguardo:
- Dovevamo andare ai Caraibi, ma poi quello sciocco uragano ci ha rovinato la vacanza ed al Ministero degli esteri ci hanno sconsigliato di partire parlando di disastri, gente per le strade con problemi di ordine pubblico e neanche un ristorante decente rimasto in piedi - aggiunse guardandosi attorno, come se vedesse per la prima volta la trattoria, e prendesse con orrore del suo squallore.
- Ci hanno suggerito: ma perché non andate in Sicilia? 
- Noi che siamo dotati di un grande spirito d’avventura, ci siamo detti:  ...e perché no? Va beh che c’è la mafia, va beh che parlano strano, ma cosa ci costa? Un albergo decente ci sarà di sicuro pure lì, no? E se poi dovessero sparare... un po’ di far west con la coppola... non potrà mica farci male.
E giù una risata tra l’isterico ed il gioioso, guardandosi attorno come a ricevere approvazione e solidarietà per la battuta reputata intelligente.
Io ho i fumi e mia moglie, che mi conosce, m’ha già rifilato una tacchettata sul malleolo destro per strozzarmi in gola il vaffa che stava lì lì per partire.
- Siamo scesi all’Hotel Villa Igea, il miglior cinque stelle di Palermo... - continua che la gran dama la quale, preso l’abbrivio, sembra non trovare più freni al suo soliloquio.
- Niente male, per essere a Palermo. Non che sia all’altezza del Le Faubourg di Parigi, intendiamoci, ma ce la mettono proprio tutta, poverini.
Vorrei interromperla, dire qualcosa, ma quel fiume di parole ha ormai rotto gli argini e non consente in nessun modo di interloquire. Guardo verso Peppino e lui, di rimando, fa spallucce. Il solito debosciato che lascia gli amici a cavarsela da soli nel momento del bisogno.
Intorno una desolazione di visi rassegnati,  uomini e donne sembrano quasi ipnotizzati dalle quelle labbra sfiorite che si muovono alla cadenza di una mitragliatrice tedesca della seconda guerra mondiale. Dubito che sentano altro che un sottofondo stridulo ed indistinto.
- Pensate, amici, faceva un caldo, ma un caldo, che le scarpe rimanevano attaccate all’asfalto e la gente, per trovare un po’ di refrigerio mangiava il panino col gelato... .
A questo punto, avendo già la caviglia tumefatta per le gran botte ricevute e nella speranza di prevenirmene la prevedibile frattura, mi alzo rumorosamente dal tavolo e sbotto:
- Dai, moglie, andiamo. Per stasera ne ho abbastanza. Peppino quando avrai un po' di tempo, ti sarei grato se spiegassi a questa logorroica di tua cugina che in Sicilia la gente preferisce il gelato nelle brioche a quello sul cono, ma forse per lei questo concetto rimarrà del tutto incomprensibile, visto che non ti lascia spazio per aprire bocca.
Il gelato nel panino..., ma che cretina!

giovedì 8 maggio 2014

L' Abbandono (da Collegio, ricordi di un orfano di Dario Temperino)



Una bimba dall’età indefinita, ricciola, moretta di capelli e pelle, un filino di moccio al naso, tirò il grembiulino di una compagnuccia che le stava avanti e sottovoce, come se le confidasse un segreto, le disse indicando mia moglie:
- A viri? chidda è me' matri[1]... .
Quanta speranza, quanta aspettativa in quella innocente bugia, che bugia non era poi neppure del tutto perché - nel suo intimo - l’orfanella voleva che così fosse per quell’istintivo bisogno di sentirsi viva, una bimba fra bimbi che aspirava a crescere, a vivere...
...e la vita che a quell’età ti appare lunghissima, eterna, ti porterà lontano da qui con il fardello delle cose che hai più o meno inconsciamente imparato e le tante che via via ancora dovrai apprendere nelle altre scuole che frequenterai, dalle persone incontrate, dall’ambiente nel quale - tuo malgrado - ti troverai immerso, dai tanti errori che fatalmente commetterai.
In tutto questo divenire, ti rendi conto che una sola cosa resterà sempre con te, una cosa della quale mai riuscirai a liberarti, che altro non è che quella sensazione di solitudine e di abbandono; quella certezza d’essere solo al mondo e di dovertela sempre cavare da solo per sopravvivere.

Questa evidenza prende corpo nel momento stesso in cui, messo piede in collegio, hai visto chiudersi alle spalle di tua madre il grande cancello verde che tranciava prematuramente il cordone ombelicale con la tua famiglia e solo adesso faceva di te un bambino solo,  veramente un orfano.
Nel corso della tua vita, qualunque essa sarà, fortunata o disgraziata, incontrerai un’infinità di persone d’ogni tipo, uomini e donne che a primo acchito potranno apparirti come te, altri migliori, alcuni perfino straordinari, ma poi tutti si confonderanno nella tua mente e tutti dimenticherai perché troppo simili tra loro, e troppo differenti da te, non avendo loro condiviso con te quel qualcosa che fa te diverso da tutti gli altri: il collegio.
In collegio si cresce in fretta perché non hai più attorno a te quella sicurezza che si chiama famiglia, la quale nella dipendenza dai genitori, segna i tempi naturali dell’infanzia, la stessa alla quale ogni bambino ha diritto per raggiungere quell’equilibrio con il quale domani si muoverà nel mondo degli adulti.
E cresci ancora più in fretta perché l’amore materno qui diventa più solo un’aspirazione, qualcosa che - senza che tu riesca a fartene una ragione e nello sconforto più nero indotto dall’ingiustizia di quanto ti accade - inaspettatamente viene a mancarti in modo viscerale, quasi che venissi privato in sol colpo delle gambe o della vista. Senza di lui t’incupisci, alla ricerca come sei del bene perduto che mai più ritroverai, neppure quando sarai ripreso in famiglia, perché a mancarti é esattamente quell’amore che non hai ricevuto in quegli anni del tuo abbandono.

Perché l’amore materno non è qualcosa di materiale che tu possa toccare, togliere e rimpiazzare a tuo piacimento: esso è un legame ininterrotto, fatto di sguardi, contatti, sensazioni, sorrisi, gesti, dolcezze, paure, umori, baci, fremiti, osservazioni, perfino scapaccioni, e poi ancora di trepidazioni, speranze, profumi, suoni, esitazioni, dubbi, smarrimenti..., che mai viene meno e nel quale la creatura confida fin dal momento del suo insediamento nel caldo del ventre, nel buio consolatore, nell’umore che tutto avvolge, protegge, cresce..., finché non esce alla luce abbagliante della vita.



[1] Tr.: La vedi? Quella è mia madre.

mercoledì 30 aprile 2014

Domitilla

Mia figlia aveva compiuto 18 anni e non era ancora mai stata in Sicilia. Fu così che decisi di portarcela ed anche subito, approfittando di un periodo di rara calma per me che ero in comando.
Se non che non avevo tenuto conto della gatta Domitilla che, per di più, era anche incinta per la prima volta! Alla disperata convocai una delle donne che lavorava con la cooperativa delle pulizie e facendole balenare 100 euro sotto al naso, vinsi la sua ritrosia a prendersi cura dell’animale durante la mia assenza.
Ogni giorno telefonavo apprensivo ed infine appresi che la micia aveva partorito ben quattro piccoli che, però, a 24 ore della loro venuta al mondo erano spariti insieme con la madre.

Dieci giorni dopo feci rientro dalla Sicilia e, tali erano i miei sensi di colpa per quell’abbandono che, neppure un’ora dopo ero già a casa della brava donna la quale, imbarazzatissima, non sapeva cosa dirmi della gatta:
- Vede, arriva un paio di volte al giorno, mangia cosa trova in quella ciotola e sparisce nuovamente.
Mentre ascoltavo le sue querimonie, ecco un miagolio giungermi dall’alto; alzo gli occhi e scorgo Domitilla sporgersi dal ciglio del sovrastante sottotetto. Scende rapida, si struscia alle mie caviglie, adocchia il cestone che ho appoggiato a terra e rapida risale per due piani. Ricomparire con un batuffolo peloso in bocca, scende e lo ripone nel cesto, riparte e ridiscende con una altro cucciolo che sistema accanto al primo e così ancora due volte.
Il figlio della donna esclama:
- Ah, eccoli dov’erano... - e fa per avvicinarsi, ma Domitilla si smette tra il cesto e lui, pelo irto e la schiena inarcata, soffia rumorosamente quasi s’apprestasse a saltargli agli occhi.

Nel viaggio verso casa, dallo specchietto lancio occhiate d’ammirazione nel cestone posto sul sedile posteriore dove Domitilla lecca amorosamente i suoi piccoli.
Ormai m’è tutto chiaro: Domitilla partorisce ed il ragazzo incuriosito prova a prendere i piccoli. La gatta per proteggerli trova rifugio nel sottotetto e ne ridiscende solo quando mi vede arrivare per fare ritorno a casa.

Mi ha sempre permesso di accarezzare i gattini, ma per oltre un mese mi ha portato rancore per quell’abbandono e per tutto quel periodo non s’è mai lasciata accarezzare, né  mai m’è saltata in braccio come era solita fare. 

domenica 16 marzo 2014

PUTLER: Un pericoloso parallelo


Dopo la presa del potere, la politica estera hitleriana divenne via via sempre più aggressiva, sicché nel corso di pochi anni venne riarmato l'esercito; il 7 marzo 1936 fu rimilitarizzata la zona di confine con la Francia; il 12 marzo1938 fu sancita l'annessione dell'Austria (Anschluss); e, con la Conferenza di Monaco, il 1º ottobre 1938, sanzionata l'annessione della regione dei Sudeti, nonché quella di Boemia e Moravia il successivo 13 marzo del '39.
Il 23 agosto dello stesso anno, la Germania stipulato un patto di non aggressione con l'Unione Sovietica, avanza pretese territoriali su parte della Polonia,  il cosiddetto  corridoio di Danzica, invadendola il 1º settembre 1939, da qui lo scoppio della guerra con la distruzione dell'intera Europa e milioni e milioni di morti.
---
Nella recente politica di Putin mi sembra di ravvisare gli stessi prodromi che portarono alla 2^ Guerra mondiale: 16 marzo 2014 plebiscito  e conseguente pronuncia della Duma di Mosca che ratificlerà l’annessione della Crimea alla Russia.
Contestuali annunci di Putin che l’Esercito russo, se chiamato in aiuto dalle delle minoranze russofone, interverrà con l’occupazione dei territori orientali della Repubblica Ucraina. E sappiamo già che ha ammassato 25 mila uomini a ridosso di quei confini, mentre agenti provocatori provvedono a sollevare i russi dell'Ucraina contro il governo centrale.
Alla luce di quanto già avvenuto in Georgia e di ciò che succede in Siria sotto l'ombrello di Mosca, credo che l’opinione pubblica mondiale debba cominciare a riconoscere il pericoloso parallelo tra quanto avvenuto 70 anni fa e quanto stia producendo di pericoloso per la pace e la stabilità l’aggressività dell’Orso russo e del suo zar Putin.
---
In tutto ciò l’Italia rappresenta il ventre molle dell’Occidente a causa della sua enorme dipendenza dal gas russo, cosa che impedirà al nostro Paese di unirsi con convinzione ed affidabilità alle pur timide minacce di sanzioni che si vorrebbe adottare contro i rigurgiti imperialisti di Mosca.

giovedì 6 febbraio 2014

Totò il pescatore (da Collegio, ricordi di un orfano di Dario Temperino)



Di pescatori veri durante il giorno non ce n’era nemmeno l’ombra nei pressi dei ruderi dell’approdo, perché - come quasi tutti sanno - i pescatori escono in mare al calar del sole, quando il cielo si tinge di rosso porpora e le barche, prendendo lentamente il largo si stagliano nel suo disco come tante macchioline che l’astro, alla fine, inghiotte nel suo tuffo serale. Questi uomini, ormai immersi nell’oscurità, stanno fuori tutta la notte a trafficare con reti, palamiti, nasse, lampare e fiocine, facendo rientro solo alle prime luci dell’alba, con il sole che s’alza quasi  a restituirli sani e salvi alla madre terra.

     L’unica barca che di giorno arrivava fin lì era quella di Totò, un ragazzone di media statura che si reggeva su due gambe forti e possenti come colonne, scuro di carnagione per l’abbronzatura sulla quale spiccavano due grandi occhi azzurri ed uno straordinario ed accattivante sorriso che - a prima vista - lo rendeva simpatico a tutti. Pescatore anche lui, da militare era stato anche marinaio scelto, ma la sua non era una barca qualsiasi, una barca a remi come le tante che vedevi dondolarsi nel povero porticciolo di Mondello: no, la sua era una magnifica grande barca a vela, bianca ed azzurra, che – col favore del vento - solcava il mare con un movimento continuo, sicuro e che quando virava si piegava su un fianco mentre la vela emetteva un rumore secco, quasi di uno schiaffo, che ogni volta ti sorprendeva.
     Totò, dopo una virata spettacolare che faceva compiere alla barca solo per attirare l’attenzione, “per fare pumata” come dicevamo noi, accostava con prudente abilità fino ai ruderi del porticciolo e, quasi fosse lì per caso e volesse riposarsi un po’ dalla fatica della navigazione, si metteva a parlare con noi che lo subissavamo di domande:
- Ma che bella ‘sta barca, a quanto va?
Più pratiche, invece, le domande delle ragazze grandi, frutto certo di una maturità diversa:
- ‘sta notte piscasti assai? T’abbuscasti u  pani?
     C’era quasi un’inquieta apprensione in questa ultima domanda: “hai fatto buona pesca stanotte, sufficiente a guadagnarti il pane?”, come se loro si preoccupassero che il giovane avesse abbastanza da mangiare..., e dire che nulla lasciava pensare che patisse la fame o versasse in precarie condizioni d’indigenza, ma in realtà quelle loro domande nascondevano interessi ben più profondi che, a noi bambini, sfuggivano.

     Angela, quando la barca cominciava ad accostare, mollava tutto e, come per caso s’avvicinava nel posto dove ormai sapevamo che sarebbe andata ad attraccare, raccomandando:
- Bambini fate attenzione, qui l’acqua è più alta e non dovete sporgervi.
     Angela parlava quasi sempre in italiano. Lei era la più vecchia delle ragazze che con le suore ci accompagnavano in quelle giornate di mare, si diceva che avesse quasi diciotto anni, un’enormità per essere ancora in collegio e dieci più della media di noi maschietti. Ma era anche la più benvoluta. Dolcissima, con un visetto da Madonna incorniciato da capelli ondulati biondi e due buoni occhi neri che luccicavano fra le ciglia lunghe che li inquadravano. Era agile, flessuosa, e sembrava quasi non toccare gli scogli con i suoi piedi nudi quando saltava da uno all’altro. Le sue compagne, all’arrivo della barca, intonavano una strana canzone, un qualcosa  che sapeva di madrigale d’amore, ed al tempo di canzonatura, che faceva arrossire Angela, ma che a noi piccoli non faceva né caldo né freddo, perché Totò era simpatico ed a lui Angela gliel’avremmo data volentieri:
- Arrivò u zitu, cu’ l’occhi chini d’ammuri e ad Angela si vulia vasari... . Ma idda, mischinedda, s’ù putia sulu taliari... .
Le suore erano venete e non sempre capivano i nostri giochi di parole, ma la signora Filippa lei si che capiva ed anche bene: “è arrivato il fidanzato con gli occhi pieni d’amore e desideroso di baciare Angela. Ma lei, poverina, può solo guardarlo...”, ma non appariva contrariata né preoccupata, forse coltivava i nostri stessi affettuosi pensieri nei confronti di quei ragazzi che sembravano due angeli casualmente caduti in terra.
     
Un giorno di quelli Totò, che doveva avere ammaliato anche le suore, ottenne il permesso di portare alcuni di noi in barca, bambini e bambine, Angela compresa, naturalmente. La signora Filippa invece non volle sentire ragioni:
- Pazzi siete, io mi scantu...
Letizia, sua figlia, però non aveva paura, almeno così disse e svelta saltò in barca mettendosi proprio vicino a me che spavaldamente m’ero già imbarcato, anche perché non volevo rimanere tra gli esclusi. Ed Angela -  la prima volta - poté sedere vicino a Totò... .


     Fu un viaggio infinito, veloce sull’azzurro complice delle onde, tenero per i palpabili sentimenti di due giovani innamorati che persi tra cielo e mare in quelle immensità misuravano i loro sogni, cullati da una brezza costante e fresca come una carezza. Come la carezza che la mano di Totò portò arditamente a quella di Angela, stringendogliela poi forte in un’esplicita promessa d’amore. La stessa che, con il consenso della Signora, sua tutrice, si realizzerà sei mesi dopo nella Chiesa di Mondello, la chiesetta dei pescatori, e mentre i due dicevano si davanti a Dio, io cantavo per la prima volta ad un matrimonio con la mia intonata vocetta bianca di bambino e tanta, tantissima commozione.

mercoledì 5 febbraio 2014

La rivoluzione strisciante



La rivoluzione (dal tardo latino revolutio, -onis, rivolgimento) è un mutamento improvviso e profondo che comporta la rottura di un modello precedente e il sorgere di un nuovo modello. La rivoluzione può essere anche definita come un cambiamento irreversibile dal quale non si può tornare indietro.
La storia dell’uomo ci dice di tante rivoluzioni: tra quelle più vicine a noi, la francese che fece emergere la dignità dell’uomo in quanto tale; e la nostrana, il Risorgimento che mise fine al frazionamento politico della nazione italiana.

Se ne possono ricordare molte altre, la maggior parte velleitarie, ma tutte - quelle utili e quelle effimere - hanno avuto in comune due fasi:
-  la prima: quella dell’ira, dello sdegno, della irragionevolezza, che comporta lacrime e sangue;
-  la seconda, quella dell’orrore per il sangue versato, che raccoglie al fine il fruttoo di tanto dolore, non fosse altro che per mero spirito di sopravvivenza.
Oggi con quella cosa strana chiamata “grillismo” uscita dalle urne stiamo vivendo una rivoluzione politica, e quel che temo è che si sia solo all’inizio di quella prima fase, quella dell’irragionevolezza, che ci costerà lacrime e sangue, sia pure in senso figurato (almeno spero).
I baroni della vecchia politica, troppo indaffarati ad inseguire il potere, guardano al grillismo con aria di sufficienza, non ne intendono il significato e la portata, così come sono restati sordi ai lamenti degli Italiani che per anni inutilmente hanno reclamato pulizia ed onestà.

La vecchia politica, impaniata nelle sue stesse spire, non riesce a comprendere cosa voglia quell’assatanato di Grillo che, urlando quel che la gente vuole sentire, ha riempito piazze e parlamento, mentre minaccia di erigere ghigliottine in ogni piazza d’Italia.

Gli appelli al buon senso, i richiami all’emergenza, lo spread altalenante e le borse che scendono non fanno presa sul rivoluzionario Grillo ed i suoi grillini, per i quali - confesso - non nutro alcuna simpatia, ma che accredito di più buone ragioni di quante non ne facciano valere le vecchie cariatidi della politica, nonché quel nuovo che dice d’avanzare, ma che - alla prima prova, quella della legge elettorale - col progetto proposto sembra temere più il democratico voto dei cittadini che non la loro indignazione, con ciò alludendo al fatto che non si vuol restituire agli elettori la facoltà di eleggere i propri rappresentanti. 

giovedì 23 gennaio 2014

U zzu cu' la varba (da Collegio, ricordi di un orfano di Dario Temperino)



      Anche sul marciapiedi di fronte alla scuola, trovavi quasi sempre le stesse reti  dalle toppe bianche inserite qua e là con la pari abilità, solo che qui regnava il silenzio, rotto talvolta dall’occasionale scivolare del filobus che tornava a Palermo, o dall’improvviso ed argentino vocio dei bambini che entravano a scuola, o ne sciamavano felici al termine delle lezioni. Perché qui il pescatore era uno solo: lui non cantava mai, né sembrava accorgesi di quanto avveniva attorno a lui.
     Seduto a terra, gli alluci nelle maglie della rete tesa, muoveva l’agile spola in silenzio riparando i guasti sulla vecchia rete, poi con gesti meccanici ritirava il tutto in grosse ed ordinate matasse per l’uso della notte successiva e, senza guardarsi attorno o proferire parola, rientrava a testa bassa a casa sua. A questa si accedeva per una porta finestra a doghe dalle gelosie mobili, quali quelle che in Sicilia ne trovi tante, che si apriva proprio a fianco al portoncino della scuola. Una stanza o forse due, una latrina e niente di più.

     Era un uomo che incuteva soggezione e rispetto; alto, o per lo meno tale appariva a me che ero piccolo, tanto magro da sembrare rinsecchito dal sole, dall’età indefinita, il viso rugoso scavato dalla salsedine comune a tutti i pescatori, ma con l’aggiunta di una fluente barba bianca, la più bianca e la più lunga che avessi mai visto perfino sui disegni o le fotografie dei libri di scuola. Viveva tutto solo. Non parlava e non alzava mai gli occhi su nessuno, salvo forse quella volta che posò, per un lungo momento, lo sguardo su di me che m’ero attardato una mattina accanto a lui intento, come sempre, a ricucire la rete: due occhi interrogativi, d’un azzurro giovane, intenso, penetrante. Mi sottrassi a quello sguardo fuggendo via di corsa e riparando dentro l’androne  della scuola, con il cuore in subbuglio perché “u zzù cu la varba”, “lo zio con la barba”, come tutti lo chiamavano, m’aveva guardato.

     Ero affascinato da u zzù cu la varba, dove forse quello “zio” era quanto rimaneva d’un retaggio antico, comune a tutto il Mediterraneo, dove con quella parola s’esprimeva - in un unico e breve suono, quasi un sospiro - affetto, rispetto, dignità.
Col tempo, dal quel giorno in cui m’aveva guardato, mi pareva d’avere stabilito con lui una sorta di tacito, complice legame sicché, al mio giungere nei pressi della scuola affrettavo il passo per guadagnare quel minuto o due che mi consentisse di sostare con più agio accanto a lui, in silenzio, senza disturbare, e godere di quella fugace serenità che la sua vicinanza sembrava darmi.      
     Il vecchio continuava a testa bassa il suo lavoro, senza mai una parola o un cenno di fastidio, anzi ormai ero certo che aveva preso ad aspettarmi e che sarebbe rimasto deluso non mi fossi più fermato.

     Non ricordavo che mai qualcuno fosse andato a trovarlo o avesse con lui scambiato due parole, quindi fui sorpreso quella mattina di vedere un piccolo assembramento di adulti davanti alla sua portafinestra: mi staccai di corsa dalla fila dei miei compagni e, spinto da non so quale presentimento, riuscii a sgusciare tra gli uomini e le donne che colà davanti s’ammassavano. Facendomi largo entrai per la prima volta in quella casa: lui era là, steso sopra un lettino, vestito di tutto punto con camicia pulita e pantaloni tirati giù fino alle caviglie, le braccia in croce sul petto, la barba pettinata a coprirgli le mani. Aveva perfino le scarpe ai piedi, cosa che non m’era mai capitato di vedergli prima, perché i pescatori le scarpe le mettevano solo la domenica per andare in chiesa e lui in chiesa non l’avevo mai notato.
     Capii che era morto, anche se sembrava dormire, tanto il suo volto era sereno e disteso. Erano quelle braccia incrociate a rivelarne lo stato, quelle braccia forti anche in vecchiaia, che mai s’erano incrociate prima e nelle quali, incosciamente, avevo tante volte desiderato d’essere cullato.

     Non era neanche il primo morto che mi accadeva di fissare: due anni prima avevo visto di sfuggita mio padre steso nel suo letto maritale, stessa posizione delle braccia, un rosario fra le dita, vestito di tutto punto come se dovesse uscire per una festa o un appuntamento importante, ed anche le scarpe lucide ai piedi. Poi qualcuno mi aveva portato via da quella stanza dove io, troppo piccolo per capire, percepivo solo tanta confusione e disagio.
     Questa volta, invece, scrutavo u zzù cu la varba con occhio diverso, più cosciente, quasi con indiscreto interesse. Ne contavo le rughe profonde della fronte e del viso, i fili della barba che ora m’apparivano singolarmente spessi, grossi e tormentati. Inconsciamente speravo che riaprisse quegli occhi azzurri come il mare da lui solcato centinaia, migliaia di volte sulla fragile sua barchetta di pochi metri; mare dal quale aveva tratto il sostentamento di quella sua esistenza che finiva così, senza preavviso, cancellando una vita di chissà quali emozioni, gioie, sacrifici. E per la prima volta provai un indefinito e rabbioso senso di ribellione, incapace com’ero di farmene una ragione.

     In quell’esame che tanto sconvolgeva i miei sentimenti, casualmente lo sguardo si posò sulla sua bocca incorniciata dai fili bianchi dei baffi e della barba, sorprendendomi a considerare che non l’avevo mai vista da quella prospettiva: ad un angolo di essa credetti di scorgere traccia di un fuoriuscito umido filo scuro, che nessuno aveva provveduto a ripulire. Turbato da quella disgustosa vista, scappai di corsa, come spaventato, raggiungendo trafelato la classe dove i miei compagni era già tutti seduti al proprio banco. La maestra mi guardò con preoccupata apprensione: qualcuno le aveva riferito dove ero stato e dal mio pallore intuiva il grande turbamento di cui ero preda, poiché tutti quanti conoscevano il legame che avevo stabilito con quel vecchio pescatore.
- Stamattina, prima di cominciare le lezioni, parleremo d’u zzù cu la varba e diremo una preghiera per lui... .
     Cominciò col dire che era stato un uomo buono ed bravo pescatore, ma questo lo sapevo già.        
    Quel che non sapevo è che era stato sposato e che aveva avuto anche due figli maschi, alti, belli e forti come lui. Poi era scoppiata la guerra ed i ragazzi erano stati imbarcati su un incrociatore senza fare più ritorno in quella casetta. La moglie, a seguito di ciò s’era ammalata, lasciandosi morire per il dolore e u zzù cu la varba, da allora, non s’era più rasato e non aveva mai più parlato con nessuno.


Quel racconto l’ho custodito sempre nel mio cuore insieme con l’immagine di quel vecchio dalla barba bianca che una mattina, quasi per caso, aveva posato il suo limpido sguardo su di me, un orfano lontano da casa, in disperata ricerca d’un cenno d’affetto.

martedì 21 gennaio 2014

RICORDI: La mia maestra (da “Collegio, ricordi di un orfano” di Dario Temperino)


Di quella scuola (elementare di Mondello) ho dei ricordi tenerissimi.
      Poiché avevo frequentato la primina a Palermo, ero stato iscritto alla seconda facendo conoscenza con la mia adorata maestra, la signorina Maria Concetta B., non bella, non alta, e forse anche non più giovanissima. Ne ricordo il volto rotondo incorniciato dai capelli castani, mossi e divisi lateralmente dalla riga a sinistra che non riusciva, tuttavia, a domare qualche ricciolo ribelle sulla spaziosa fronte; le guance dall’incarnato arrossato mettevano in evidenza una rada peluria bionda, che la credenza popolare vuol riconoscere in chi ha sofferto i morsi della fame per lungo tempo. Sapeva di fresco e di pulito.
      Non so perché, ma avevo la sensazione che non fosse una donna felice, però era un’insegnante attenta, motivata, capace d’apparire materna e severa ad un tempo. Veniva tutti i giorni da Palermo e, molto più tardi, scoprirò che viveva ancora con i genitori in un quartiere bene della città, indice d’una buona estrazione sociale.

Ho amato moltissimo questa maestra, la “signorina”, che mi ha accolto in 2^ e poi, per mano, mi ha condotto alla licenza, attraverso due esami  - in 2^ ed in 5^ - ma soprattutto, lasciandomi più di quanti altri mai insegnanti mi daranno nel resto della mia lunga  e complessa vita d’istruzione.
      Lei sola, una e trina, e senza neppure la collega di sostegno, e Dio sa se c’erano - nel dopoguerra - bambini abbisognosi di sostegno.
      Mi sorprendo spesso a pensare: questo l’ho imparato alle elementari e mi chiedo come fosse possibile che apprendessi, immagazzinassi ed assimilassi tutte quelle nozioni.
      Allora s’insegnava con naturalezza, senza periodi didattici studiati a tavolino e senza ausili più o meno artificiali: no i variopinti regoli ed i laboratori sperimentali, men che mai i costosi tablet che erano di là da venire.
      Io avevo grande difficoltà a leggere: che fossi leggermente dislessico? Può darsi, ma non lo sapremo mai, e ciò, comunque, rappresentò una tragedia solo per quanti mi avevano compagno di squadra nel corso di una delle tante gare di lettura che periodicamente facevamo.
      Sorvolando sul fatto che ho imparato a leggere, scrivere ed a far di conto, cosa naturale e che era anche il minimo che ci si potesse aspettare, alle elementari imparai a rispettare la natura, ricordate le feste degli alberi? Ancor oggi non strappo una foglia da un albero: tutto quello che so della circolazione del sangue l’ho imparato allora; così come quasi tutto quello che so sugli antichi Romani e le relative leggende di cui era infiorettata quella loro storia.
      Ma ricordo anche il primo Sputnik, nonché la gran voglia di primeggiare nella gara radiofonica di “Campanile sera”, dove in classe si compilavano le cartoline da inviare alla Radio per far vincere alla nostra città, Palermo, il “Campanile d’oro” del peso di un chilo. Correva l’anno 1955 ed io lo ricordo ancora, il che vuol dire che quella scuola e, soprattutto, quella maestra non ci dava solo le striminzite nozioni scolastiche per le quali era mal pagata, come si direbbe oggi, ma ci educava anche ad essere parte di una società viva ed attiva.
      Cosa dire della sua umanità?
      Si, usava anche lei la bacchetta, generalmente la riga di legno che usava solo sulle palme delle mani, perché sul dorso c’erano le nocche ed i colpi avrebbero fatto più male. Per dare una bacchetta, chiamava alla lavagna e ti chiedeva:
      - Ti rendi conto che ti stai comportando veramente male? Dammi le manine!
      Quando si tornava al posto, generalmente sentivi la solita frase pronunciata da duro:
      - ‘u me fici nenti...
      Lei faceva finta di non avere sentito, ma credo fosse più contenta e forse anche rassicurata, mentre lo spaccone di turno, al di là dell’atteggiamento esibito, appariva comunque mortificato. Così almeno a me sembrava, perché quel paio di volte che toccò a me, mortificato io l’ero per davvero.
      Quale maestra cuce di notte i costumi di carnevale per la recita scolastica, non già dei suoi figli, ma dei suoi alunni; quale compra la foto ricordo della classe per i suoi alunni poveri e gliela regala; chi paga i francobolli per un concorso radiofonico al quale fa partecipare i ragazzi per insegnare loro che devi amare la tua città e farla primeggiare?
      No, la mia maestra non era giovanissima e neppure ricca: a mio giudizio di adulto e padre di famiglia, che ha patito lo spettacolo desolante della scuola d’oggi,  posso dire che era solo motivata.
      Non avevamo libri; non avevamo che due quaderni, uno a righe ed uno a quadretti e talvolta neanche quelli; sicuramente non avevamo zainetti firmati da 28 chili sulle spalle, né diari griffati, e nelle tasche dello sdrucito, ma pulito, grembiulino nero trovavi, al massimo, un paio di tappi per il gioco "a sottomuro" o una vecchia figurina di Tarzan, non certo l’ultimo modello di cellulare.
      La refezione scolastica era riservata ai bambini poveri, il che vuol dire a quasi tutti, ma la maestra rimaneva in piedi, avrebbe mangiato alle 14:30 quando sarebbe finalmente rientrata a casa. Si fosse seduta nessuno avrebbe obbiettato, ma lei sapeva che quel pasto non era stato confezionato per lei e non lo consumava. E con ciò, con l’esempio, la mia maestra, la mia signorina, mi ha insegnato ad essere onesto, corretto, a prendere sempre e solo ciò che mi spettava nella vita, ciò che era mio, e talvolta neanche quello, perché avrebbe potuto esserci qualcuno più bisognoso di me.
      Sono rimasto in contatto con lei finché non mi sono tornate indietro le lettere che, uomo fatto, periodicamente le indirizzavo da oltre trent’anni.

giovedì 16 gennaio 2014

Riflessioni: Genitori e figli


Sono genitore e ne ho sentito tutta la responsabilità... . 
Credo anche di essere stato un buon genitore, magari non il migliore, ma ce l’ho messa tutta. 
Non credo che si possano dettare delle regole per aiutare un qualcuno ad essere un buon genitore, poiché ciascuno di noi s’arroga il diritto di crescere i propri figli a propria immagine e somiglianza. E’ un fatto culturale che affonda le proprie radici sulle esperienze personali, sulla consapevolezza della grande responsabilità che ci deriva dalla procreazione e sulla personale accettazione del nuovo stato di genitori.
Sono convinto che il tutto parta dalla considerazione che si ha di se stessi, della propria vita, del proprio lavoro; in altre parole di quanto ciascuno di noi si ritenga soddisfatto del proprio io.

Personalmente, ho voluto crescere i miei figli nel culto dei valori nei quali credo fermamente: il senso del dovere; la responsabilità, l’istruzione; l’orgoglio del proprio lavoro; il senso dello Stato; la rettitudine sempre e comunque, anche contro il proprio interesse; la competitività; la consapevolezza del posto che occupi nella società, nonché le responsabilità che ne derivano; la pietà verso il prossimo; la giustizia... . 
Ho sperato e pregato perché diventassero migliori di me.

Non ho mai mollato, non ho mai perso di vista l’obiettivo che era quello di farne un uomo e una donna degni di questo nome.  Dapprincipio col gioco, sempre con l’esempio.
Fin da piccoli, i miei figli partecipavano con il loro parere alle decisioni prese in famiglia, anche le più importanti. Con la crescita sono stati responsabilizzati al loro livello: la scuola era il loro lavoro, pari a quello del papà che usciva da casa ed a quello della mamma che provvedeva a tutti noi. Non ho mai delegato ad altri, neppure alla scuola, alla parrocchia o alla palestra...: tutte queste istituzioni sono state intese solo un corollario, comunque da sorvegliare.
I miei figli sono stati sostenuti da un amore a tutta prova, manifestatosi in forme diverse, a seconda dell’età, dal tenero aiuto alle prime aste sul quaderno, alla disponibilità a prestare orecchio ai loro sfoghi per le prime delusioni, i primi dispiaceri... .

Oggi i miei figli sono grandi e si sono addentrati nella vita con le proprie gambe..., ma sanno che ci sono e che ci sarò ancora, almeno per qualche anno, spero.