martedì 21 gennaio 2014

RICORDI: La mia maestra (da “Collegio, ricordi di un orfano” di Dario Temperino)


Di quella scuola (elementare di Mondello) ho dei ricordi tenerissimi.
      Poiché avevo frequentato la primina a Palermo, ero stato iscritto alla seconda facendo conoscenza con la mia adorata maestra, la signorina Maria Concetta B., non bella, non alta, e forse anche non più giovanissima. Ne ricordo il volto rotondo incorniciato dai capelli castani, mossi e divisi lateralmente dalla riga a sinistra che non riusciva, tuttavia, a domare qualche ricciolo ribelle sulla spaziosa fronte; le guance dall’incarnato arrossato mettevano in evidenza una rada peluria bionda, che la credenza popolare vuol riconoscere in chi ha sofferto i morsi della fame per lungo tempo. Sapeva di fresco e di pulito.
      Non so perché, ma avevo la sensazione che non fosse una donna felice, però era un’insegnante attenta, motivata, capace d’apparire materna e severa ad un tempo. Veniva tutti i giorni da Palermo e, molto più tardi, scoprirò che viveva ancora con i genitori in un quartiere bene della città, indice d’una buona estrazione sociale.

Ho amato moltissimo questa maestra, la “signorina”, che mi ha accolto in 2^ e poi, per mano, mi ha condotto alla licenza, attraverso due esami  - in 2^ ed in 5^ - ma soprattutto, lasciandomi più di quanti altri mai insegnanti mi daranno nel resto della mia lunga  e complessa vita d’istruzione.
      Lei sola, una e trina, e senza neppure la collega di sostegno, e Dio sa se c’erano - nel dopoguerra - bambini abbisognosi di sostegno.
      Mi sorprendo spesso a pensare: questo l’ho imparato alle elementari e mi chiedo come fosse possibile che apprendessi, immagazzinassi ed assimilassi tutte quelle nozioni.
      Allora s’insegnava con naturalezza, senza periodi didattici studiati a tavolino e senza ausili più o meno artificiali: no i variopinti regoli ed i laboratori sperimentali, men che mai i costosi tablet che erano di là da venire.
      Io avevo grande difficoltà a leggere: che fossi leggermente dislessico? Può darsi, ma non lo sapremo mai, e ciò, comunque, rappresentò una tragedia solo per quanti mi avevano compagno di squadra nel corso di una delle tante gare di lettura che periodicamente facevamo.
      Sorvolando sul fatto che ho imparato a leggere, scrivere ed a far di conto, cosa naturale e che era anche il minimo che ci si potesse aspettare, alle elementari imparai a rispettare la natura, ricordate le feste degli alberi? Ancor oggi non strappo una foglia da un albero: tutto quello che so della circolazione del sangue l’ho imparato allora; così come quasi tutto quello che so sugli antichi Romani e le relative leggende di cui era infiorettata quella loro storia.
      Ma ricordo anche il primo Sputnik, nonché la gran voglia di primeggiare nella gara radiofonica di “Campanile sera”, dove in classe si compilavano le cartoline da inviare alla Radio per far vincere alla nostra città, Palermo, il “Campanile d’oro” del peso di un chilo. Correva l’anno 1955 ed io lo ricordo ancora, il che vuol dire che quella scuola e, soprattutto, quella maestra non ci dava solo le striminzite nozioni scolastiche per le quali era mal pagata, come si direbbe oggi, ma ci educava anche ad essere parte di una società viva ed attiva.
      Cosa dire della sua umanità?
      Si, usava anche lei la bacchetta, generalmente la riga di legno che usava solo sulle palme delle mani, perché sul dorso c’erano le nocche ed i colpi avrebbero fatto più male. Per dare una bacchetta, chiamava alla lavagna e ti chiedeva:
      - Ti rendi conto che ti stai comportando veramente male? Dammi le manine!
      Quando si tornava al posto, generalmente sentivi la solita frase pronunciata da duro:
      - ‘u me fici nenti...
      Lei faceva finta di non avere sentito, ma credo fosse più contenta e forse anche rassicurata, mentre lo spaccone di turno, al di là dell’atteggiamento esibito, appariva comunque mortificato. Così almeno a me sembrava, perché quel paio di volte che toccò a me, mortificato io l’ero per davvero.
      Quale maestra cuce di notte i costumi di carnevale per la recita scolastica, non già dei suoi figli, ma dei suoi alunni; quale compra la foto ricordo della classe per i suoi alunni poveri e gliela regala; chi paga i francobolli per un concorso radiofonico al quale fa partecipare i ragazzi per insegnare loro che devi amare la tua città e farla primeggiare?
      No, la mia maestra non era giovanissima e neppure ricca: a mio giudizio di adulto e padre di famiglia, che ha patito lo spettacolo desolante della scuola d’oggi,  posso dire che era solo motivata.
      Non avevamo libri; non avevamo che due quaderni, uno a righe ed uno a quadretti e talvolta neanche quelli; sicuramente non avevamo zainetti firmati da 28 chili sulle spalle, né diari griffati, e nelle tasche dello sdrucito, ma pulito, grembiulino nero trovavi, al massimo, un paio di tappi per il gioco "a sottomuro" o una vecchia figurina di Tarzan, non certo l’ultimo modello di cellulare.
      La refezione scolastica era riservata ai bambini poveri, il che vuol dire a quasi tutti, ma la maestra rimaneva in piedi, avrebbe mangiato alle 14:30 quando sarebbe finalmente rientrata a casa. Si fosse seduta nessuno avrebbe obbiettato, ma lei sapeva che quel pasto non era stato confezionato per lei e non lo consumava. E con ciò, con l’esempio, la mia maestra, la mia signorina, mi ha insegnato ad essere onesto, corretto, a prendere sempre e solo ciò che mi spettava nella vita, ciò che era mio, e talvolta neanche quello, perché avrebbe potuto esserci qualcuno più bisognoso di me.
      Sono rimasto in contatto con lei finché non mi sono tornate indietro le lettere che, uomo fatto, periodicamente le indirizzavo da oltre trent’anni.

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