Di quella scuola (elementare di Mondello) ho dei
ricordi tenerissimi.
Poiché avevo
frequentato la primina a Palermo, ero stato iscritto alla seconda facendo
conoscenza con la mia adorata maestra, la signorina Maria Concetta B., non
bella, non alta, e forse anche non più giovanissima. Ne ricordo il volto
rotondo incorniciato dai capelli castani, mossi e divisi lateralmente dalla
riga a sinistra che non riusciva, tuttavia, a domare qualche ricciolo ribelle
sulla spaziosa fronte; le guance dall’incarnato arrossato mettevano in evidenza
una rada peluria bionda, che la credenza popolare vuol riconoscere in chi ha
sofferto i morsi della fame per lungo tempo. Sapeva di fresco e di pulito.
Non so
perché, ma avevo la sensazione che non fosse una donna felice, però era
un’insegnante attenta, motivata, capace d’apparire materna e severa ad un
tempo. Veniva tutti i giorni da Palermo e, molto più tardi, scoprirò che viveva
ancora con i genitori in un quartiere bene della città, indice d’una buona
estrazione sociale.
Ho amato moltissimo questa maestra, la “signorina”, che mi ha accolto
in 2^ e poi, per mano, mi ha condotto alla licenza, attraverso due esami - in 2^ ed in 5^ - ma soprattutto,
lasciandomi più di quanti altri mai insegnanti mi daranno nel resto della mia
lunga e complessa vita d’istruzione.
Lei sola,
una e trina, e senza neppure la collega di sostegno, e Dio sa se c’erano - nel
dopoguerra - bambini abbisognosi di sostegno.
Mi
sorprendo spesso a pensare: questo l’ho imparato alle elementari e mi chiedo
come fosse possibile che apprendessi, immagazzinassi ed assimilassi tutte
quelle nozioni.
Allora
s’insegnava con naturalezza, senza periodi didattici studiati a tavolino e
senza ausili più o meno artificiali: no i variopinti regoli ed i laboratori
sperimentali, men che mai i costosi tablet che erano di là da venire.
Io avevo
grande difficoltà a leggere: che fossi leggermente dislessico? Può darsi, ma
non lo sapremo mai, e ciò, comunque, rappresentò una tragedia solo per quanti
mi avevano compagno di squadra nel corso di una delle tante gare di lettura che
periodicamente facevamo.
Sorvolando
sul fatto che ho imparato a leggere, scrivere ed a far di conto, cosa naturale
e che era anche il minimo che ci si potesse aspettare, alle elementari imparai
a rispettare la natura, ricordate le feste degli alberi? Ancor oggi non strappo
una foglia da un albero: tutto quello che so della circolazione del sangue l’ho
imparato allora; così come quasi tutto quello che so sugli antichi Romani e le
relative leggende di cui era infiorettata quella loro storia.
Ma ricordo
anche il primo Sputnik, nonché la gran voglia di primeggiare nella gara
radiofonica di “Campanile sera”, dove in classe si compilavano le cartoline da
inviare alla Radio per far vincere alla nostra città, Palermo, il “Campanile
d’oro” del peso di un chilo. Correva l’anno 1955 ed io lo ricordo ancora, il
che vuol dire che quella scuola e, soprattutto, quella maestra non ci dava solo
le striminzite nozioni scolastiche per le quali era mal pagata, come si direbbe
oggi, ma ci educava anche ad essere parte di una società viva ed attiva.
Cosa dire
della sua umanità?
Si, usava
anche lei la bacchetta, generalmente la riga di legno che usava solo sulle palme
delle mani, perché sul dorso c’erano le nocche ed i colpi avrebbero fatto più
male. Per dare una bacchetta, chiamava alla lavagna e ti chiedeva:
- Ti rendi
conto che ti stai comportando veramente male? Dammi le manine!
Quando si
tornava al posto, generalmente sentivi la solita frase pronunciata da duro:
- ‘u me
fici nenti...
Lei faceva
finta di non avere sentito, ma credo fosse più contenta e forse anche
rassicurata, mentre lo spaccone di turno, al di là dell’atteggiamento esibito,
appariva comunque mortificato. Così almeno a me sembrava, perché quel paio di
volte che toccò a me, mortificato io l’ero per davvero.
Quale
maestra cuce di notte i costumi di carnevale per la recita scolastica, non già
dei suoi figli, ma dei suoi alunni; quale compra la foto ricordo della classe
per i suoi alunni poveri e gliela regala; chi paga i francobolli per un
concorso radiofonico al quale fa partecipare i ragazzi per insegnare loro che
devi amare la tua città e farla primeggiare?
No, la mia
maestra non era giovanissima e neppure ricca: a mio giudizio di adulto e padre
di famiglia, che ha patito lo spettacolo desolante della scuola d’oggi, posso dire che era solo motivata.
Non
avevamo libri; non avevamo che due quaderni, uno a righe ed uno a quadretti e
talvolta neanche quelli; sicuramente non avevamo zainetti firmati da 28 chili sulle spalle,
né diari griffati, e nelle tasche dello sdrucito, ma pulito, grembiulino nero
trovavi, al massimo, un paio di tappi per il gioco "a sottomuro" o una vecchia
figurina di Tarzan, non certo l’ultimo modello di cellulare.
La
refezione scolastica era riservata ai bambini poveri, il che vuol dire a quasi
tutti, ma la maestra rimaneva in piedi, avrebbe mangiato alle 14:30 quando
sarebbe finalmente rientrata a casa. Si fosse seduta nessuno avrebbe
obbiettato, ma lei sapeva che quel pasto non era stato confezionato per lei e
non lo consumava. E con ciò, con l’esempio, la mia maestra, la mia signorina,
mi ha insegnato ad essere onesto, corretto, a prendere sempre e solo ciò che mi
spettava nella vita, ciò che era mio, e talvolta neanche quello, perché avrebbe
potuto esserci qualcuno più bisognoso di me.
Sono
rimasto in contatto con lei finché non mi sono tornate indietro le lettere che,
uomo fatto, periodicamente le indirizzavo da oltre trent’anni.
Papino mio, mi fai magonare...
RispondiEliminaTesoro di papà
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