Anche sul marciapiedi di fronte alla scuola, trovavi
quasi sempre le stesse reti dalle toppe
bianche inserite qua e là con la pari abilità, solo che qui regnava il
silenzio, rotto talvolta dall’occasionale scivolare del filobus che tornava a
Palermo, o dall’improvviso ed argentino vocio dei bambini che entravano a
scuola, o ne sciamavano felici al termine delle lezioni. Perché qui il
pescatore era uno solo: lui non cantava mai, né sembrava accorgesi di quanto
avveniva attorno a lui.
Seduto a
terra, gli alluci nelle maglie della rete tesa, muoveva l’agile spola in
silenzio riparando i guasti sulla vecchia rete, poi con gesti meccanici ritirava
il tutto in grosse ed ordinate matasse per l’uso della notte successiva e,
senza guardarsi attorno o proferire parola, rientrava a testa bassa a casa sua.
A questa si accedeva per una porta finestra a doghe dalle gelosie mobili, quali
quelle che in Sicilia ne trovi tante, che si apriva proprio a fianco al
portoncino della scuola. Una stanza o forse due, una latrina e niente di più.
Era un uomo che
incuteva soggezione e rispetto; alto, o per lo meno tale appariva a me che ero
piccolo, tanto magro da sembrare rinsecchito dal sole, dall’età indefinita, il
viso rugoso scavato dalla salsedine comune a tutti i pescatori, ma con
l’aggiunta di una fluente barba bianca, la più bianca e la più lunga che avessi
mai visto perfino sui disegni o le fotografie dei libri di scuola. Viveva tutto
solo. Non parlava e non alzava mai gli occhi su nessuno, salvo forse quella
volta che posò, per un lungo momento, lo sguardo su di me che m’ero attardato
una mattina accanto a lui intento, come sempre, a ricucire la rete: due occhi interrogativi,
d’un azzurro giovane, intenso, penetrante. Mi sottrassi a quello sguardo
fuggendo via di corsa e riparando dentro l’androne della scuola, con il cuore in subbuglio perché
“u zzù cu la varba”, “lo zio con la barba”, come tutti lo chiamavano, m’aveva
guardato.
Ero
affascinato da u zzù cu la varba, dove forse quello “zio” era quanto rimaneva
d’un retaggio antico, comune a tutto il Mediterraneo, dove con quella parola s’esprimeva
- in un unico e breve suono, quasi un sospiro - affetto, rispetto, dignità.
Col tempo, dal quel giorno in cui m’aveva guardato, mi
pareva d’avere stabilito con lui una sorta di tacito, complice legame sicché,
al mio giungere nei pressi della scuola affrettavo il passo per guadagnare quel
minuto o due che mi consentisse di sostare con più agio accanto a lui, in
silenzio, senza disturbare, e godere di quella fugace serenità che la sua
vicinanza sembrava darmi.
Il vecchio continuava a testa bassa il suo
lavoro, senza mai una parola o un cenno di fastidio, anzi ormai ero certo che
aveva preso ad aspettarmi e che sarebbe rimasto deluso non mi fossi più fermato.
Non ricordavo
che mai qualcuno fosse andato a trovarlo o avesse con lui scambiato due parole,
quindi fui sorpreso quella mattina di vedere un piccolo assembramento di adulti
davanti alla sua portafinestra: mi staccai di corsa dalla fila dei miei
compagni e, spinto da non so quale presentimento, riuscii a sgusciare tra gli
uomini e le donne che colà davanti s’ammassavano. Facendomi largo entrai per la
prima volta in quella casa: lui era là, steso sopra un lettino, vestito di
tutto punto con camicia pulita e pantaloni tirati giù fino alle caviglie, le
braccia in croce sul petto, la barba pettinata a coprirgli le mani. Aveva
perfino le scarpe ai piedi, cosa che non m’era mai capitato di vedergli prima,
perché i pescatori le scarpe le mettevano solo la domenica per andare in chiesa
e lui in chiesa non l’avevo mai notato.
Capii che
era morto, anche se sembrava dormire, tanto il suo volto era sereno e disteso.
Erano quelle braccia incrociate a rivelarne lo stato, quelle braccia forti
anche in vecchiaia, che mai s’erano incrociate prima e nelle quali,
incosciamente, avevo tante volte desiderato d’essere cullato.
Non era
neanche il primo morto che mi accadeva di fissare: due anni prima avevo visto
di sfuggita mio padre steso nel suo letto maritale, stessa posizione delle
braccia, un rosario fra le dita, vestito di tutto punto come se dovesse uscire
per una festa o un appuntamento importante, ed anche le scarpe lucide ai piedi.
Poi qualcuno mi aveva portato via da quella stanza dove io, troppo piccolo per
capire, percepivo solo tanta confusione e disagio.
Questa
volta, invece, scrutavo u zzù cu la varba con occhio diverso, più cosciente,
quasi con indiscreto interesse. Ne contavo le rughe profonde della fronte e del
viso, i fili della barba che ora m’apparivano singolarmente spessi, grossi e
tormentati. Inconsciamente speravo che riaprisse quegli occhi azzurri come il
mare da lui solcato centinaia, migliaia di volte sulla fragile sua barchetta di
pochi metri; mare dal quale aveva tratto il sostentamento di quella sua
esistenza che finiva così, senza preavviso, cancellando una vita di chissà
quali emozioni, gioie, sacrifici. E per la prima volta provai un indefinito e
rabbioso senso di ribellione, incapace com’ero di farmene una ragione.
In
quell’esame che tanto sconvolgeva i miei sentimenti, casualmente lo sguardo si
posò sulla sua bocca incorniciata dai fili bianchi dei baffi e della barba,
sorprendendomi a considerare che non l’avevo mai vista da quella prospettiva:
ad un angolo di essa credetti di scorgere traccia di un fuoriuscito umido filo
scuro, che nessuno aveva provveduto a ripulire. Turbato da quella disgustosa
vista, scappai di corsa, come spaventato, raggiungendo trafelato la classe dove
i miei compagni era già tutti seduti al proprio banco. La maestra mi guardò con
preoccupata apprensione: qualcuno le aveva riferito dove ero stato e dal mio
pallore intuiva il grande turbamento di cui ero preda, poiché tutti quanti conoscevano
il legame che avevo stabilito con quel vecchio pescatore.
- Stamattina, prima di cominciare le lezioni,
parleremo d’u zzù cu la varba e diremo una preghiera per lui... .
Cominciò col
dire che era stato un uomo buono ed bravo pescatore, ma questo lo sapevo già.
Quel che non sapevo è che era stato
sposato e che aveva avuto anche due figli maschi, alti, belli e forti come lui.
Poi era scoppiata la guerra ed i ragazzi erano stati imbarcati su un
incrociatore senza fare più ritorno in quella casetta. La moglie, a seguito di
ciò s’era ammalata, lasciandosi morire per il dolore e u zzù cu la varba, da
allora, non s’era più rasato e non aveva mai più parlato con nessuno.
Quel racconto l’ho custodito sempre
nel mio cuore insieme con l’immagine di quel vecchio dalla barba bianca che una
mattina, quasi per caso, aveva posato il suo limpido sguardo su di me, un
orfano lontano da casa, in disperata ricerca d’un cenno d’affetto.
Come eri tenero papino mio...
RispondiEliminaAdesso, però, non sei più solo... hai me!
certo, tesorino. Ho te... <3
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