martedì 4 giugno 2019

Al buio



I racconti bui della mia infanzia li ho sentiti, rubandoli, a casa di mia nonna..., allora mio padre era malato e, durante le vacanze estive, mia madre mi mandava volentieri dalla nonna che viveva a ..., un paesino della Sabina, in provincia di Rieti.
I nonni materni erano gente semplice, di paese, che vivevano spaccandosi la schiena con quanto ricavavano dalla campagna, in parte condotta a mezzadria. Soprattutto mia nonna era rimasta legata alle tradizioni contadine che la volevano rispettosa e sottomessa ai “padroni”, specie dopo che il nonno era stato licenziato dalla “ceramica” perché portavoce delle rimostranze dei compagni di lavoro in sciopero. Questi l’avevano eletto loro rappresentante, ma una volta ottenuto quello in cui speravano, gli avevano voltato le spalle e nessuno aveva protestato per il suo licenziamento.
Erano gli anni bui del dopoguerra ed un posto di lavoro faceva la differenza... .
Lei aveva imparato la lezione; il nonno no, lui non s’era mai piegato e, forse proprio per questo, tutti in paese continuavano a rispettarlo.
Allora io avevo forse cinque anni e la sera, quando il sole tramontava, mi mandavano a letto, perché i grandi dovevano parlare.
Loro, i grandi, rimanevano accanto all’enorme camino nel quale Nonna Rosina aveva cucinato, finché anche l’ultima brace non si fosse consumata, piombando la stanza nel buio più assoluto e nel freddo della notte.
Prima di farmi vincere dal sonno, dal mio letto nella stanza accanto alla grande cucina, ero uso ascoltare quello che i grandi si dicevano.
Talvolta arrivava un fratello del nonno o della nonna, oppure un vicino, un conoscente ed i toni si alzavano, consentendomi di carpire meglio le parole in libertà.
Chissà perché, man mano che la sera si faceva più tarda ed il buio più fitto, i loro discorsi prendevano pieghe paurose che cominciavano a popolare la mia stanza di ombre fatue e di occhi fosforescenti.
Seppi così di una tale che la notte si trasformava in un gatto zoppo per andare a spiare i vicini; e perfino della mammana che metteva insieme misteriosi filtri per far morire i bimbi prima che nascessero. Che fortuna che io fossi già nato!
Poi c’era Dorina, la moglie del giornalaio cieco, che tutte le notti dava la medicina al marito per farlo dormire e, poi, riceveva il prete per... le preghiere della sera, che duravano fino all’alba.
Il giornalaio si chiamava Tonio ed era amico mio; andavo spesso nella sua microrivendita che era proprio lì all’angolo, nello stesso corpo di casa dei nonni.
Lui riconosceva il mio passo, immagino oggi, perché mi salutava per nome ancor prima che avessi messo piede nell’edicola e mi lasciava guardare i giornaletti che la nonna non mi comprava “perché erano soldi sprecati”.
Lui sapeva sempre esattamente dove trovare tutto ciò che vendeva e, quando richiesto, lo prendeva con tale sicurezza che sembrava ci vedesse.
Non solo, ma registrava anche ogni operazione su un foglio sopra il quale era posato un righello metallico, meglio dire una stretta bacchetta di rame sulla quale spiccavano piccoli ed ordinati buchi quadrati che lui cercava, al tatto, con un apposito punzone. Quindi spostava la bacchetta e leggeva ad alta voce l’appunto, scorrendo sul foglio bucherellato il dito indice. Come facesse per me rimane un mistero ancor oggi nonostante lui, più volte, avesse cercato di spiegarmi che quell’insieme di buchi erano parole.
Dorina, sua moglie, era una donna piccola, grigia e con i baffi che, per mia fortuna non c’era mai nel negozio del marito.
Non mi piaceva Dorina perché ti guardava con degli occhietti simili a due punte di spilli.
No, non mi piaceva proprio Dorina, anche se diceva le preghiere tutta la notte con il don al quale servivo messa tutte le mattine che il cielo mandava.
Una notte ebbi a svegliarmi, evidentemente disturbato dal chiacchiericcio della stanza accanto. Come d’abitudine tesi l’orecchio ed ebbi un sussulto, un tuffo al cuore: la voce che udivo nel buio, dietro la porta chiusa, era quella di mia madre.
Avevo tanta nostalgia della mia mamma poiché non la vedevo da molto tempo; inoltre mi sentivo a disagio dai nonni che erano vecchi ed io non amavo stare lì dove tutto era così diverso da casa mia e tutto era proibito.
I miei nonni materni non erano da coccole, non ne avevano il tempo, presi com’erano a mettere insieme il pranzo con la cena ed a raggranellare una lira sull’altra per pagare il mutuo della casa acquistata quando ancora il nonno era in ceramica. Per fortuna che c’era zia Luciana, l’unica figlia rimasta in casa da sposare e lei era giovane e bella...
Ma perché la mia mamma non veniva da me?
Restava in cucina a parlare con i nonni, invece di venire a darmi un bacio, una carezza.
Mi era proibito alzarmi dopo che ero stato messo a letto per la notte. Ma io sentivo la voce della mamma che non vedevo da tanto tempo e per lei morivo di nostalgia.
Io ero un bambino ubbidiente, ma non m’era vietato chiamare avessi avuto bisogno di qualcosa, così presi coraggio e, sulle prime flebilmente, cominciai ad invocare:
- Mamma, mammina...
Poi più forte, sempre più forte:
- Mamma, mamma...
Infine disperato:
- MAMMA, STEFANIAAAA...
Nulla, nessuno: né quella che mi sembrava essere la mia mamma, né la nonna e neppure la zia Luciana...: ero stato abbandonato, ero solo al mondo!
O almeno così credetti prima di addormentarmi sfinito e sconsolato.
Da lì a poco sarei entrato in Collegio..., ma quella è un'altra storia.

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