Una bimba dall’età indefinita, ricciola, moretta di capelli e pelle,
un filino di moccio al naso, tirò il grembiulino di una compagnuccia che le
stava avanti e sottovoce, come se le confidasse un segreto, le disse indicando
mia moglie:
- A viri? chidda è me' matri[1]...
.
Quanta speranza,
quanta aspettativa in quella innocente bugia, che bugia non era poi neppure del
tutto perché - nel suo intimo - l’orfanella voleva che così fosse per quell’istintivo
bisogno di sentirsi viva, una bimba fra bimbi che aspirava a crescere, a
vivere...
...e la vita che a quell’età ti appare lunghissima, eterna, ti porterà
lontano da qui con il fardello delle cose che hai più o meno inconsciamente imparato
e le tante che via via ancora dovrai apprendere nelle altre scuole che frequenterai,
dalle persone incontrate, dall’ambiente nel quale - tuo malgrado - ti troverai
immerso, dai tanti errori che fatalmente commetterai.
In tutto questo
divenire, ti rendi conto che una sola cosa resterà sempre con te, una cosa della
quale mai riuscirai a liberarti, che altro non è che quella sensazione di solitudine
e di abbandono; quella certezza d’essere solo al mondo e di dovertela sempre cavare
da solo per sopravvivere.
Questa evidenza
prende corpo nel momento stesso in cui, messo piede in collegio, hai visto
chiudersi alle spalle di tua madre il grande cancello verde che tranciava
prematuramente il cordone ombelicale con la tua famiglia e solo adesso faceva
di te un bambino solo, veramente un
orfano.
Nel corso della
tua vita, qualunque essa sarà, fortunata o disgraziata, incontrerai un’infinità
di persone d’ogni tipo, uomini e donne che a primo acchito potranno apparirti come
te, altri migliori, alcuni perfino straordinari, ma poi tutti si confonderanno nella
tua mente e tutti dimenticherai perché troppo simili tra loro, e troppo differenti
da te, non avendo loro condiviso con te quel qualcosa che fa te diverso da
tutti gli altri: il collegio.
In collegio si
cresce in fretta perché non hai più attorno a te quella sicurezza che si chiama
famiglia, la quale nella dipendenza dai genitori, segna i tempi naturali
dell’infanzia, la stessa alla quale ogni bambino ha diritto per raggiungere
quell’equilibrio con il quale domani si muoverà nel mondo degli adulti.
E
cresci ancora più in fretta perché l’amore materno qui diventa più solo
un’aspirazione, qualcosa che - senza che tu riesca a fartene una ragione e nello
sconforto più nero indotto dall’ingiustizia di quanto ti accade - inaspettatamente
viene a mancarti in modo viscerale, quasi che venissi privato in sol colpo delle
gambe o della vista. Senza di lui t’incupisci, alla ricerca come sei del bene
perduto che mai più ritroverai, neppure quando sarai ripreso in famiglia,
perché a mancarti é esattamente quell’amore che non hai ricevuto in quegli anni
del tuo abbandono.
Perché l’amore materno non è qualcosa di materiale che
tu possa toccare, togliere e rimpiazzare a tuo piacimento: esso è un legame
ininterrotto, fatto di sguardi, contatti, sensazioni, sorrisi, gesti, dolcezze,
paure, umori, baci, fremiti, osservazioni, perfino scapaccioni, e poi ancora di
trepidazioni, speranze, profumi, suoni, esitazioni, dubbi, smarrimenti..., che mai
viene meno e nel quale la creatura confida fin dal momento del suo insediamento
nel caldo del ventre, nel buio consolatore, nell’umore che tutto avvolge,
protegge, cresce..., finché non esce alla luce abbagliante della vita.